“Genesi”, ricerca fotografica di Sebastião Salgado, è un viaggio, un racconto e un atlante della vita sul pianeta terra, a partire dalla purezza perduta e ricostruita nel microcosmo della valle del Rio Doce, ai luoghi ancora incontaminati di tutto il pianeta. Questo atlante e il tempo che è servito a costruirla sono in mostra ai Tre Oci, all’isola della Giudecca. L’allestimento della mostra merita il viaggio, in qualsiasi condizione atmosferica, il luogo non poteva essere migliore, sono a disposizione monografie dell’autore e pubblicazioni che permettono una compressione profonda di un lavoro lungo, appassionato e di grande qualità.
Lélia Weickner, moglie di Salgado, ha una formazione d’architetto a Parigi alla Accademia di Belle Arti. L’idea di trasformare le stanze dei Tre Oci in continenti è sua. Leila Weickner la racconta dicendo della difficoltà di organizzare una quantità di immagini quasi co-estensiva al tempo di una ricerca durata otto anni di viaggi in trentadue spedizioni. Ogni organizzazione tematica non rendeva giustizia di una questione irriducibile se si parla di vita: la questione geografica. Sabastião Salgado ha infatti iniziato questo viaggio intorno e a proposito della natura, anche umana, dopo aver raccontato le contraddizioni e le condizioni di privazione dei lavoratori delle economie emergenti e le conseguenze delle guerre sui corpi delle persone che le vivevano. L’indagine intorno alle condizioni di produzione di civiltà ha spostato infine la sua riflessioni a quelle delle condizioni dell’esistenza dell’ambiente urbano e civilizzato e delle società che lo abitano.
Salgado ha una formazione da economista, nel suo sguardo le condizioni di produzione, il chi produce e come, sono domande costitutive. Rappresentare la natura è stata una conseguenza logica di queste domande, chi produce non sono solo le persone, ma è lo stesso pianeta che permette alla produzione di generare le risorse che lo rendono vivibile, a partire dall’acqua, dal suolo, dalle condizioni climatiche e basilari di convivenza umana e coesistenza di specie diverse. Dopo aver raccontato le condizioni di privazione e di distruzione, con “Genesi” ha cercato la vita allo stato puro, e ha mostrato che l’inevitabile senso di morte che una fotografia porta con sé è solo la testimonianza della brevità della vita umana rispetto alla lunghezza temporale della potenza generativa geografica e geologica; lo sguardo di un individuo è interno a un ciclo di vita più grande e solo in questa interiorità può avere senso.
Per questo Sebastião Salgado, dopo avere iniziato la rinaturalizzazione della fazenda ereditata dalla famiglia nella valle del Rio Doce e avere osservato la capacità rigenerativa delle specie autoctone nel progetto di rinaturalizzazione di Léila, ha deciso di iniziare dalle Galapagos, come Darwin. Di inseguire la biodiversità nelle isole che ne testimoniano l’esistenza. Lo sguardo è insieme naturalistico, antropologico e architettonico. La grande potenza di queste immagini: l’identificazione con il soggetto della fotografia, che si tratti di una montagna, di un fiume, che la foto sia scattata a due metri di distanza, a trenta centimetri o da un pallone aerostatico, che sia un ritratto in primo piano, un gruppo o una foto di paesaggio, che il soggetto sia animale, vegetale, minerale, la ricerca è stata sempre la stessa; identificarsi con quello che si fotografa. L’elemento fondamentale di questo processo è il tempo, la sua materia è l’esperienza di finitezza del trovarsi fuori dall’ambiente artificiale con persone che vivono in una dimensione di coesistenza con i cicli di produzione e distruzione naturali, non per forza più lenti, ma diversi, con l’unico elemento tecnologico che è la macchina fotografica.
Le foto e le dichiarazioni di Salgado però rivelano anche un’altra attitudine: quella di mostrare come il mondo delle immagini non sia estraneo alla natura delle società umane, chi vive nelle foreste può fare uso dei medicinali, conosce lo specchio e la macchina fotografica, vuole farsi fotografare e ha già visto le proprie immagini, vivere in questo modo è una scelta deliberata. Il senso di queste affermazioni rende anche diverso il significato di queste immagini dalla lunga tradizione di documentazione etnografica che la civiltà occidentale ha prodotto spesso come catalogo archeologico di cose estinte, prima della loro totale rimozione. Queste immagini hanno il significato opposto a quelle, e in queste sta la loro continuità con le ricerche precedenti che in fondo sono le ricerche di un economista sulle condizioni di produzione con altri mezzi: quello che qui si dice è che si può essere in qualche modo simili a coloro che vivono nelle foreste, che anzi lo siamo perché siamo altrettanto fragili, altrettanto esposti, altrettanto opaca ci è la natura e le forze millenarie della vita che l’hanno costituita come ora ci appare solo per il tempo di un battere di ciglia rispetto ai tempi di formazione di un intero pianeta.
L’altra dimensione che non si può non citare è quella del dettaglio: per quanto grande il formato, per quanto esteso il viaggio, per quanto sia esteso il numero di stampe, la sensazione è che ci si trovi di fronte a una temporalità che eccede il fotogramma, a una memoria impossibile e infinita che è quella della vita che scorre e cambia in continuazione. Se Sebastião Salgano, reporter di guerra o di fatiche del lavoro, ci ha insegnato che nessuno può mettersi al riparo delle tragedie degli altri, in questa mostra-installazione fatta con Lélia, ci sta dicendo che nessuno può pensare di non essere dipendente da un ecosistema infinitamente più grande, più vecchio e più giovane insieme.
Il lavoro di Salgado è definito per intero dalla sua grande passione per l’atto di fotografare, per il tipo di relazione con il soggetto che la foto gli permette di ottenere, con lo sguardo degli altri che poi vedranno il risultato di quell’incontro. Il senso del lavoro non sta né nell’oggetto della fotografia né nello sguardo di chi poi la guarderà, perché nelle dichiarazioni stesse di Salgado la reazione dello spettatore è un fatto privato dell’osservatore che si appropria per sé e solo per sé di quello che vede; dunque per Salgado la soggettività del fotografo che fa l’immagine, sia costruendo la scena, sia tecnicamente realizzando la foto, proprio come quella del pittore che sta in studio o all’aria aperta davanti al suo soggetto, è totale. Dunque, di fatto, è un atto privato cui solo l’oggetto fotografia permette di diventare pubblico, capacità di mostrare, nascondere e svelare del quadro. In questa grande passione per l’immagine fotografica, per il processo fisico di impressione e di viaggio e di incontro sta la grande qualità del suo lavoro: sono foto bellissime, di una raffinatezza incredibile, il cui bianco e nero contrastato sottrae tutto il fascino facile dell’esotico per fare diventare quella foto un fatto puramente ottico, riproducibile con qualsiasi mezzo; un altro quasi miracolo è quello tecnico di realizzare fotografie in grandissimo formato a partire da fotocamere digitali riversando i dati su pellicola e ristampando ai sali d’argento, in modo da parificare il lavoro svolto negli anni passati con pellicole di grande formato, con quello recente realizzato con schede di memoria flash come supporto, anche per facilità di passare attraverso gli scanner degli aeroporti senza rovinare i negativi, senza dover spiegare a ogni persona i perché di tutta quell’attrezzatura pesante.
Il valore politico di queste immagini è nell’atto comunicativo che segue, nelle emozioni che suscita quando l’esperienza privata personale del fotografo passa a quella altrui; il controllo di ogni punto stampato è totale e questo è il grande merito di Salgado. Le sue foto testimoniano una fiducia sconfinata nella tecnica fotografica, la fiducia nella riproduzione di un istante, esaltata dal passaggio al digitale. I corpi e le luci che le disegnano hanno una presenza scultorea, la foto non è il ritratto di un totem, per come è trattata essa stessa è un totem, è come un rito tribale di una civiltà che a furia di riprodurli ha perso i propri riti. Salgado vede in modo primitivo e restituisce alle immagini la loro potenza primitiva, con il massimo di padronanza tecnica possibile; questo è il suo talento.
Per la società che lo circonda e per chi non ha la sua sensibilità però questa capacità di visione pura assume il fascino degli amori senili, l’attrazione che la giovinezza esercita sulla vecchiaia. La nostalgia rischia di prendere il posto del desiderio e con la nostalgia anche un certo desiderio distruttivo del soggetto, che è il risultato opposto del motivo per cui Salgado fotografa. Questo mi sembra il limite politico di questa mostra, sponsorizzata insieme da WWF e da Vale, la più grande compagnia mineraria di estrazione di ferro della valle del Rio Doce, cui i genitori di Salgado si sono rifiutati di vendere i terreni perché non fossero utilizzati a fini estrattivi e che ora i figli stanno rinaturalizzando.
In questa ambiguità risiede la potenza e la speranza consegnata da Salgado alla società e ai propri potenti sponsor. Una condizione che ci riguarda tutti e che costituisce il vero significato politico, forse non interamente volontario di questa mostra. La condizione di ambiguità dell’ambientalismo è centrale; con questa ambiguità dovremo abituarci a coesistere perché il corpo esposto della terra ha lo stesso valore del corpo nudo delle modelle, degli schiavi e delle risorse che non si rinnovano, per quanto possiamo cercare di rigenerarle.