La meglio gioventù: azioni

di - 3 Luglio 2016
“Chi non la conoscerà, questa superstite terra, come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?”
(Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, B, I, 544)
Quando si parla di impegno sul territorio, soprattutto in Friuli, risulta semplice per me associarlo alla figura di un intellettuale come Pasolini, attento ai mutamenti storici, sociali ed economici del nostro Paese. Protagonista attivo di una denuncia diretta e aperta contro il conformismo sociale, Pasolini si condensa e diventa autentico in quest’azione perché supporta una proposta etica che potremmo definire ‘di ambiente’: l’artista deve infatti custodire e proteggere innanzitutto un paesaggio culturale, attraverso la sua riflessione e interpretazione. In questa prospettiva, il paesaggio non è solo luogo geografico e naturale, ma anche e soprattutto ambiente storico e umano: un territorio composito e stratificato nel tempo, che è insieme universo linguistico, identità di luoghi, e patrimonio d’immagini artistiche che in un determinato contesto si elaborano e trasmettono ai posteri.
Tale intervento sta alla base di questo tentativo progettuale ideato per Villa Manin, di leggere cioè l’opera espressamente realizzata da artisti di una precisa generazione in chiave etica e, più precisamente, di seguire in tutti loro lo sviluppo di un’idea che parte dall’ambiente, inteso quale deposito di storia, di lingua, di cultura, e che per queste peculiarità sia di per sé dotato di valore. Si è voluto così ricreare uno specifico ‘paesaggio’ mostrandone la fragilità e, allo stesso tempo, la ‘forza rivoluzionaria’ che è connessa ad ogni peculiarità antropologica, come affermava Pasolini stesso. Con le loro prospettive talora unilaterali e provocatorie, allora, i messaggi qui enunciati dai giovani appaiono un invito a riappropriarsi della dimensione etica della cultura, e a interrogare un paesaggio concreto e ideale, un ambiente storico, naturale e umano, quale oggetto e territorio di cultura.
Dionisio, Fugazza, Maistrello, Mancini Zanchi, Pasquaretta, Prenka, Raceviciute, Sofia, Tusha, Vavarella sono stati chiamati ad immaginare pertanto un nuovo paesaggio a quarant’anni dal terremoto dove, quasi per un’eterogenesi dei fini, l’estetismo si trasforma in realismo, e il realismo in volontà documentaria. Attraverso i loro interventi, citano uno sconvolgimento soprattutto esistenziale e di qui ipotizzano quasi una rappresentazione rovesciata, in cui l’elaborazione artistica è più vera del mondo che riproduce. Di questo territorio, infatti, di tale elaborazione ne descrivono l’essenza, la storia. Ne rivelano l’identità dimenticata come fosse un monito, ma ne rilanciano lo spirito progettuale, quasi per un nuovo dover essere. In un gioco di continue contaminazioni, i giovani autori concepiscono così l’idea di un’azione per un domani: opere che, se da un lato traggono linfa dal linguaggio immediato della cronaca, dall’altro ci ricordano che questa stessa realtà friulana è la somma delle sue immagini culturali. Ho pertanto invitato vari artisti che si stanno affermando nel panorama nazionale, particolarmente sensibili al dialogo con il contesto territoriale, che hanno saputo evidenziare al meglio gli elementi caratterizzanti il contesto culturale, traendone linfa per una riflessione differente. A quarant’anni dal cataclisma friulano, la ricerca è stata compiuta sia attraverso lo studio della documentazione d’archivio che mediante una ricognizione fisica ed antropologica delle aree geograficamente interessate.
Così Irene Dionisio (Torino, 1986) che con l’impiego dei materiali storici d’archivio, sonori, video e fotografici ricrea un’installazione ‘futurista’, un racconto che sia metafora della disgregazione materica e psicologica. Senza cadere nella retorica del disastro, pone l’accento ai segnali di ripresa, di ‘progresso’, di ‘rivoluzione’, nell’accezione illuministica, una linea narrativa collettiva e individuale sugli effetti del sisma, di ciò che dalla potenza passa all’atto. Un footage visivo, sonoro e fotografico accompagna lo spettatore tra delle ‘macerie’ di senso, frammenti inespressi da cui parte anche Gaia Fugazza (Milano, 1985). L’artista prende invece spunto l’articolo da fatti di cronaca, basato su ricordi e racconti, filtrati dagli anni e permeati dall’incomprensibilità dell’accaduto. Storie di bambini, di situazioni estreme dove la vita resiste innanzitutto, per cui ricreare immagini in bassa modalità in cui parti figurative e altre più astratte si scaldano a contatto della tavola, scavata e così riempita di cera o altro materiale liquido nei colori dati dalla composizione minerale e geologica locale. Dello stesso avviso Rachele Maistrello (Vittorio Veneto, 1986) che rimarca il ruolo di queste comunità per la sinergia di cooperazione e impegno, per conferire nuova speranza per un futuro. Nel suo caso la dimensione del desiderio e della fede diventa atemporale, perché prescinde dalla contingenza, particolarmente acuta se vista dai bambini dove la dimensione dell’immaginazione è parte integrante della realtà, nella possibilità del ‘sogno’. Sempre all’infanzia si rivolge Davide Mancini Zanchi (Urbino, 1986, in home page) per cui si riaggiorna un dato di condivisione, dettato dai fatti di quei giorni che vedevano la popolazione locale stretta verso gli ausiliari e la solidarietà mossa in Friuli che proveniva da tutta Italia. L’intervento è pittorico e relazionale assieme perché l’opera si elargisce come utopia beneaugurante ai visitatori.
Una natura matrigna accettata nella sua componente di irrazionalità accompagna Paola Pasquaretta (Civitanova Marche, 1986) che parte dalla registrazione della continua vibrazione del suolo al Monte Soreli. Partendo dal paese di Portis, in un cambio di scala e basandosi sull’instabilità della materia, crea una scultura naturale ricoperta di sapone che ne mina la staticità. Sempre su una nuova fenomenologia dello sguardo indaga poi Agne Raceviciute (Laipeda, 1988) che attraverso due interventi negli ambienti, uno performativo e l’altro immersivo, riflette sulla crosta terrestre; una sorta di soglia che separa il mondo inconscio del sotterraneo (scavare nell’archeologia come scavare nella psicoanalisi), da quello calpestabile, dove l’uomo giace in quanto presenza reale. Un monumento carsico che diventa ricostruzione linguistica e culturale in Sebastiano Sofia (Verona, 1986) che muove dall’analisi del Duomo di Venzone, dove l’identità cittadina ha permesso di ricreare il nuovo sul distrutto. Costruzione contro dissipazione: le pietre passate di mano in mano sono la testimonianza fisica e tangibile di un disastro che non ha abbattuto lo spirito e il corpo, e che riproducendo in porcellanato i fregi dell’edificio, elogia e offre un valore estetico a sacrifici fisici e morali di cui simboleggiano la persistenza.
Un ricamo di muro è poi l’intervento installativo e pittorico di Barbara Prenka (Gjakova, 1990) e Sulltane Tusha (Durazzo, 1988) che concepiscono un’installazione scultorea metaforica dove una parete rovinosa viene tenuta in piedi dalle cuciture delle artiste. Cresciute in un tessuto sociale (Kosovo e Albania) sgretolato vi è sempre un senso di frammentazione e di necessita di ricomporre, ricostruire e reinventare una nuova forma-oggetto che si lega indissolubilmente a quella esigenza primaria dei friulani di riedificare il paesaggio frammentato (nel loro caso rimettere in piedi il medesimo) pietra su pietra. Vibrazione ad alta frequenza esplicitate da Emilio Vavarella (Monfalcone, 1989) attraverso una sorta di macchinascultura ispirata al sismografo che invece di misurare movimenti tellurici registra la loro eco come ‘documenti vivi’ nello spazio del Web, monitorando la presenza online di discussioni e articoli sul terremoto del ’76. L’opera interattiva è una sorta di ponte tra passato e presente, realtà fisica e virtuale, tra immaginazioni soggettive e realtà collettive, speculazioni tecnologiche per difformi e alternative riflessioni sociali.
Come affermava un altro poeta come Luciano Fabro: «Ciò di cui siamo responsabili è il senso dell’identità. L’arte (o l’artista) nasce nel momento in cui, nel caos totale delle cose, dell’esistenza, delle cose che non sono ancora cose (perché già ‘cosa è uscire dal caos), l’artista comincia a definire qualcosa. (…) E quando di quella cosa ci accorgiamo o la trasferiamo o la comunichiamo, automaticamente questa diventa coscienza comune, coscienza umana». (Luciano Fabro, Arte torna arte. Lezioni e conferenze 1981 – 1997,  Einaudi, Torino 1999, p. 153).
Per approfondimenti sulla poetica degli autori rimando alla rubrica allons enfants su exibart
Tutte le fotografie: courtesy e copyright Paola Pasquaretta
Andrea Bruciati

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