Capita a Palazzo Strozzi di salire una semplice rampa di scale e di ritrovarsi in un’epoca diversa, forse un po’ temuta per le sue implicazioni politiche, ideologiche, per la sua aggressività razziale, per il suo essersi conclusa con l’inizio di quella tragedia che fu la seconda guerra mondiale. Un’epoca che però ha dettato anche le basi di quella che oggi definiamo “modernità”. È proprio questa dicotomia che la mostra attualmente in corso a Palazzo Strozzi, “Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo” (a cura di Antonello Negri, Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti, Susanna Ragionieri, fino al 27 gennaio 2013, catalogo Giunti), non ha il timore d’indagare, attraverso l’esposizione di diverse opere d’arte (96 dipinti e 17 sculture), ma anche di documenti (riviste, giornali, trasmissioni radiofoniche) e oggetti di design.
La mostra cerca fin dal principio di metterci sul naso “gli occhiali degli anni Trenta”: attraverso queste lenti ci caliamo immediatamente nel filone interpretativo in voga in quel decennio, con la sua tendenza ad organizzare le specificità artistiche attorno a città che facevano da scuole. La prima sezione dell’esposizione è infatti organizzata per centri artistici di cui è possibile apprezzare le differenze. Così passeggiando per le sale dedicate a Milano s’incontrano Mario Sironi, Arturo Martini, Carlo Carrà, spostandoci a Firenze e dintorni incrociamo lavori di Ardengo Soffici e Giorgio Morandi, scendendo ancora a Roma c’imbattiamo in Felice Carena e Antonio Donghi, per poi risalire a nord-ovest, coi torinesi Gigi Chessa e Felice Casorati, e a est coi triestini Arturo Nathan e Carlo Sbisà, solo per fare alcuni dei numerosi nomi di artisti presenti in questa prima sezione organizzata territorialmente.
Anche la seconda parte della mostra ci propone un filone interpretativo tipico degli stessi anni Trenta: i giovani artisti di allora sono qui organizzati sotto la dicitura di “Irrealisti”, definizione che, nei canoni della critica del tempo, etichettava tutte quelle esperienze cariche di intenti avanguardistici, dal Futurismo all’Astrattismo, aperte a suggestioni europee ed internazionali. Così troviamo, radunati sotto uno stesso titolo, artisti molto lontani tra loro già nelle premesse, ma che ancor di più lo saranno negli sviluppi successivi, tra i tanti: Licini, Prampolini, Radice, Crali, Scipione, Mafai, Guttuso, Fontana, Marini, Melotti.
Una vera sorpresa, in queste sale, è l’apparizione di quel Fontana scultore ancora figurativo (Campione olimpico (Atleta in attesa), 1932, gesso colorato), di cui tutti abbiamo sentito parlare ma col quale è davvero raro un contatto diretto, o ancora un Melotti classico (La cena in Emmaus, 1933, gesso), preludio delle sue successive realizzazioni astratte.
Si prosegue poi con una sezione dedicata agli artisti in viaggio e una votata all’Arte Pubblica, dove si materializza forse per un attimo quell’immaginario un po’ stereotipato che abbiamo degli anni Trenta. Un enorme cartone preparatorio di Mario Sironi (La Giustizia e la Legge, 1936-1937) realizzato per il mosaico L’Italia corporativa, per lo Scalone d’Onore del Palazzo dell’Arte nel corso della VI Triennale di Milano (1936), è esempio di quella pittura murale votata a conquistare l’attenzione delle masse con la sua monumentalità, mentre la Testa di Vittoria (1937-1938) di Arturo Martini, brano scultoreo pensato per il Palazzo di Giustizia di Milano, riecheggia quella classicità e romanità ritrovate che tanto piacevano al regime mussoliniano.
Si giunge poi ad un’altra sezione, intitolata Contrasti, che di nuovo pone al centro dell’attenzione un dibattito della critica del tempo. In queste sale si materializza la ricostruzione storica di quella diatriba che finì per tacciare di “degenerazione” ogni esperienza artistica lontana dai quei canoni di classicismo che s’imposero anche in Italia dal 1938, anno in cui, con l’emanazione delle leggi razziali, Mussolini compì un passo di maggiore avvicinamento alla Germania di Hitler, alle sue politiche aggressive e, infine, alla guerra. Nella mostra Entartete Kunst (Arte Degenerata, 1937) erano esposte, come in questa sala di Palazzo Strozzi, opere di George Grosz e Otto Dix (assieme a Mondrian, Kokoschka, Kandinskij, Klee, e così via): artisti sottoposti allo scherno del pubblico per i risultati espressionisti ed astrattisti cui erano giunti. A Palazzo Strozzi questi nomi tedeschi, assieme a (tra altri) gli italiani Birolli, Fontana, Melotti, Guttuso vengono esposti a fianco di dipinti approvati invece dal regime, come I quattro elementi (ante 1937) di Adolf Ziegler, quadro che celebrava la nuova arte, secondo Hitler depurata dalla degenerazione della sperimentazione d’avanguardia. In questo quadro i nudi femminili rappresentati, allegorie dei quattro elementi naturali, erano un vero e proprio manifesto di propaganda di quei tratti, anche fisici, che caratterizzavano l’ideale razzista dello stesso nazismo.
Un altro elemento interessante di quest’ultima sezione è rappresentato dall’affanno, tangibile in alcune opere, che gli artisti italiani, isolati dal regime rispetto ad un contesto europeo più internazionale, vivevano sotto forma di ritardo da recuperare rispetto all’aggiornamento di molte delle poetiche d’avanguardia, sviluppatesi soprattutto tra Parigi e Berlino. Diverse le tendenze “rincorse” dai nostri italiani, di cui si possono trovare palesi tracce nel linguaggio visivo che adottavano per la realizzazione delle loro opere, come l’Astrattismo geometrico nei casi di Manlio Rho e Gino Ghiringhelli, il Cubismo sintetico per Mauro Reggiani, il Postimpressionismo di Matisse e Van Gogh per Cristoforo De Amicis, Afro Basaldella e Giuseppe Migneco: nessuna delle correnti internazionali di inizio secolo manca all’appello in questa breve campionatura, volta a testimoniare quel soffocante clima di ritardo e isolamento in cui percepivano di lavorare gli italiani in un confronto coi colleghi europei.
Infine una sezione dedicata alle “modernità” che caratterizzavano gli anni Trenta, rappresentate soprattutto dalla produzione industriale e dal design. Nelle sale dedicate a quest’aspetto i curatori esplicitano l’idea che, nell’Italia di quegli anni, la modernità passasse attraverso una sempre maggior diffusione del principio di riproducibilità delle cose, legato alla fabbricazione, tra l’altro, di completi d’arredo, come sedie e suppellettili di design.
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