Perché ha deciso di creare un’altra biennale?
Non volevo creare una struttura di per sé complicata e, una volta presa la decisione di agire, sono passati ben dodici mesi prima di formalizzare la società. Quei mesi, per la maggior parte nel 2006, li ho passati a comprendere come non organizzare la biennale… Può sembrare un paradosso, ma non ho fatto altro che analizzare la situazione anticipando ciò che, a mio avviso, non avrebbe avuto successo o, peggio, sarebbe stato un errore.
New Orleans è conosciuta a livello internazionale per il Festival Jazz e per il Mardi Gras, ma anche per la tradizione culinaria e per la notevole architettura. In che modo questi elementi l’hanno ispirata?
Domanda difficile… Sembra scontata ma non lo è! Il concetto della mostra ha molto a che fare con quello delle biennali di fine Novecento, come quella di Istanbul. Non è previsto nessun nucleo espositivo centrale per Prospect.1: sarà la città stessa a diventare una galleria a cielo aperto. In questo senso, la biennale si rifà a un modello europeo ed è maggiormente connessa con l’architettura della città e la sua insolita topografia. Ma non posso negare che musica e cibo giochino un ruolo chiave: sono stati molti gli artisti che hanno iniziato la loro ricerca proprio dai piaceri che la città offre.
Come hanno reagito il pubblico e le autorità locali alla sua proposta?
L’amministrazione è stata incredibilmente aperta, anche se non aveva bene idea di cosa stessi parlando. Quella che gli addetti ai lavori conoscono come “cultura biennalistica” qui coinvolge al massimo quindici-venti persone, che magari sono state a Venezia o San Paolo, qualcuna in più ad Art Basel Miami… Per questo ho cercato di inquadrare la mostra in modo che avesse senso per entrambe le parti. Ho voluto porre l’accento su New Orleans affinché attraesse i suoi abitanti non solo per i temi trattati e i riferimenti alla città o al jazz, ma anche per le loro caratteristiche linguistiche. Tutto ciò, naturalmente, permetterà al resto del mondo di ammirare la regione della South Louisiana. La riprova di quanto questa terra entri nel cuore sta proprio nel fatto che sono state pochissime le persone che l’hanno abbandonata dopo l’uragano e soprattutto che questo il progetto è ben visto dai residenti. Inoltre, stiamo cercando di pianificare l’evento in modo che sia accessibile a tutti.
Attraverso quali iniziative?
Non faremo pagare neanche un biglietto di ingresso. A prescindere dal quartiere in cui ci si troverà, ci sarà sempre una sezione della mostra nelle vicinanze. Organizzeremo visite per le scuole. Inoltre il vernissage, previsto nel weekend tra il 30 ottobre e il 2 novembre, ha in programma moltissima musica di straordinaria qualità.
Quindi sarà durante Halloween… Come si festeggia a New Orleans?
Non è una festa ufficiale della città ma, in un certo senso, segna l’inizio del Carnevale. Anche se molto in anticipo, offre l’opportunità, a chi è alle prese con i preparativi del Carnevale, di fare una sorta di prova generale. Ai cittadini di New Orleans piacciono molto le parate e ogni scusa è buona per averne una! Abbiamo previsto una classica cena di gala e dopo non dovremo far altro che spingere tutti verso la parata di Frenchman Street. Poi sarà la città a fare la sua parte: noi prepariamo la mostra… la città prepara il party!
La selezione degli artisti e quella delle location si sono svolte seguendo principi e esigenze diverse. La scelta degli artisti ha seguito l’obiettivo che mi ero preposto per la prima edizione della biennale: pensavo sarebbe stato estremamente importante posizionarsi sulle rotte degli addetti ai lavori, perché la situazione a New Orleans è ancora critica e molto precaria, ma ormai sui giornali non fa più notizia… C’è una certa rinascita culturale, ma purtroppo la ricostruzione è terribilmente in ritardo. L’obiettivo in questa fase è stato quello di focalizzare prima l’attenzione sulla città e poi creare entusiasmo intorno alla rosa di artisti invitati. Ho cercato di mettere insieme una lista molto significativa, senza andarmi a preoccupare troppo di altre questioni curatoriali. Non credevo che la prima edizione dovesse passare alla storia per aver proposto tante nuove scoperte…
Ha già in mente le edizioni successive dunque?
Già immagino una Prospect.2 più “idiosincratica” e personale, mentre nella terza sarò pronto a collaborare con altri curatori e a coinvolgere altri punti di vista. Ma per la prima biennale volevo una mostra di forte impatto, con i fuochi d’artificio! Ho invitato artisti che potevano realizzare qualcosa di molto speciale, in grado di attirare l’attenzione di un vasto pubblico. Oppure nomi importanti, per i quali la gente avrebbe anche affrontato un lungo viaggio. Poi ho cercato di trovare un equilibrio tra nazionalità diverse. Ho voluto ad esempio che almeno metà degli invitati fosse internazionale, perché non abbiamo questo tipo di mostre negli Stati Uniti. Per la scelta delle location abbiamo incontrato le istituzioni culturali cittadine. C’è una sorta di consorzio di organizzazioni affiliate con il Contemporary Arts Center che ha ricevuto dei fondi dalla Getty Foundation, destinati soprattutto alla pianificazione di eventi importanti o collaborazioni tra le varie organizzazioni. Facendo parte del team del New Orleans Museum of Art e del Contemporary Arts Center, per me è stato più facile entrare in diretto contatto con i vari enti e invitarli a far parte del progetto. Ma molte sinergie sono venute fuori, possiamo dirlo, anche per caso.
Dove si trovano gli spazi espositivi?
Molti nel Lower 9th Ward, una zona che è stata abbandonata dopo Katrina… Stiamo collaborando anche con il L9 Center for the Arts, un centro culturale per le arti che ha inaugurato lo scorso novembre. Il primo contatto con loro è avvenuto grazie a un artista, Mark Bradford. Tutti gli artisti che hanno fatto un sopralluogo a New Orleans sono passati per il Lower 9th Ward e hanno conosciuto i proprietari Keith Calhoun e Chandra McCormick. Per visitare la città e comprendere veramente cosa ci fosse prima di Katrina, si ha bisogno di una guida locale. Insomma, alcuni luoghi li abbiamo selezionati noi, in altri casi ci sono stati offerti proprio perché rappresentavano qualcosa di importante per la comunità.
La maggior parte dei lavori sono site-specific?
Direi che un cinquanta per cento sono site specific, o forse di più… Ci sono certamente molti lavori nuovi.
Ci parlerebbe di alcuni lavori in particolare?
Monica Bonvicini potrebbe presentare Built for Crime, mostrato tempo fa a Los Angeles, oppure Not For You. Sono entrambi lavori di dimensioni notevoli che si rifanno al tema della guerra. Al momento l’artista è alla ricerca del giusto contesto per esporli: ha passato a New Orleans tre giorni in immersione totale… È importante che gli artisti ne comprendano il profondo tessuto. Mark Bradford sta ricreando, all’esterno del Lower Ninth Ward, l’Arca di Noè seguendo le dimensioni indicate dall’Antico Testamento. È fatta di compensato riciclato, il tipo che si usa a Los Angeles per delimitare un cantiere in costruzione su cui poi si affiggono poster e altro. Più di qualche lavoro si sta ispirando a vascelli navali, come simbolo di un salvataggio che non c’è mai stato. Nari Ward sta ancora lavorando ai bozzetti del suo progetto. Sappiamo però che sarà installato nello storico sito della Battleground Baptist Church. La storia e le vicissitudini che hanno interessato la congregazione di questa chiesa battista, che ha dovuto abbandonare la sua dimora originaria in seguito alla decisione delle autorità di destinare l’area a zona di interesse turistico nazionale, hanno sensibilizzato molto l’artista. Con la sua opera, infatti, cercherà di rendere omaggio a una delle più antiche congregazioni battiste afro-americane, entusiasmando ovviamente tutta la comunità, pastore compreso! Wangechi Mutu sta considerando le fondamenta di una casa, sempre nella zona del L9, di proprietà di un’anziana signora che non è riuscita ad avere il rimborso assicurativo richiesto. Purtroppo con il denaro ricevuto ha potuto solo ricostruire le fondamenta della sua casa, senza contare che la ditta di costruzioni se n’è approfittata, e ora tutto ciò che le rimane della nuova casa è quello! La signora vive in un fabbricato terribile nella zona opposta della città e sogna di ritornare nel suo quartiere. Wangechi ha trovato ispirazione in questa triste vicenda e ricreerà l’edificio attraverso luci. Ci sono molti lavori che evocano una New Orleans fatta di presenze spettrali. È scontato interpretarli come un elemento malinconico e nostalgico, ma New Orleans è una città molto romantica, credo faccia parte di questo. Ci sono tracce di malinconia che traspirano dalla distruzione: il fatto che le cose si frantumino, affondino o si polverizzino. Vari artisti sono stati assorbiti e consumati da questo sentimento ed era esattamente ciò che volevo: che tutti prendessero la città molto seriamente e che creassero un’opera in risposta.
Com’è la scena artistica di New Orleans? Alcuni degli artisti locali parteciperanno alla mostra?
Sì: ce ne sono circa una dozzina, due dei quali non abitano più a New Orleans. La differenza più evidente è che qui molti artisti vanno altrove per studiare e spesso non ritornano. Gli artisti che restano, invece, lo fanno per amore della città o perché per altre ragioni ci sono arrivati e, dopo essersene innamorati, non l’hanno più lasciata. È una comunità molto dinamica ma abbastanza rada. Alla prima edizione non ho voluto esagerare nel numero di presenze locali, per varie ragioni: volevo tenerne in serbo alcuni per il futuro e non volevo enfatizzarli in maniera spropositata, visto che la premessa per attirare maggiormente il pubblico era l’internazionalità dell’evento. Poi un pizzico di provocazione per suscitare l’idea del Salon des Refusés e dare modo a organizzazioni alternative e parallele di emergere. Uno spazio sul fronte strada è alla portata di tutti, ora, e ce ne sono molti disponibili, così tanti artisti stanno organizzando mostre che noi promuoveremo nel nostro calendario. L’idea è quella di trasformare la città stessa in un unico spazio espositivo, fare in modo che percorrendo le strade di New Orleans si possa ammirare un’unica grande mostra. Se riusciremo in questo intento, avremo raggiunto il nostro obbiettivo!
Prospect.1 pare incentrata particolarmente sul ruolo che l’arte riveste nella società contemporanea in relazione alla comunità e alla responsabilità sociale che ne deriva…
È interessante perché non ho mai voluto investire energie nell’investigare questi temi, pur ammirando profondamente i colleghi che lo facevano. Sono veramente sorpreso, come del resto tutti gli altri, dalla strada che questo progetto ha intrapreso. La mia intenzione era aiutare New Orleans e, mano a mano che la sfida si faceva complicata, mi sono accorto che le mie idee, la mia esperienza e i miei interessi si sono “coalizzati” per arrivare al risultato finale. All’improvviso mi sono reso conto di abbracciare molto questioni teoriche, ad esempio su come l’arte possa giocare un ruolo nel rapporto con la comunità e quindi ridefinire la società. E che poi, a conti fatti, non c’è nulla di teorico ma tutto è estremamente vero e concreto, persino il turismo d’arte che spesso snobbiamo, considerandolo solo un’appendice, distinguendolo dal lavoro “serio” che facciamo noi… Ecco, in Prospect.1 è proprio il turista che “saves the day”, che fa la differenza insomma. Ci rivolgiamo a un turismo sofisticato e informato, che ami l’arte e l’architettura, ma che sappia anche di politica e che mostri una certa solidarietà per quello che New Orleans rappresenta sia prima che dopo Katrina. Ma non avrei mai pensato che il progetto più importante della mia carriera si fondasse sull’idea che l’arte possa far del bene. I miei ex-colleghi del New Museum ironizzavano sul fatto che con il tempo mi sarei trasformato in Marsha Tucker [direttore fondatore del New Museum, N.d.R.], perché con lei avevo un dialogo veramente peculiare e mi ha influenzato molto. Il “basta che fai ciò che pensi sia giusto in un dato momento e poi, quando ci sei dentro, rifletti sui ciò che significa” l’ho imparato da lei. Non è così male pensare che le persone siano fondamentalmente buone o che l’arte possa esser d’aiuto.
Il vostro budget si aggira sui tre milioni e mezzo di dollari. Chi sono i maggiori sostenitori del progetto?
Per la maggior parte investitori privati, filantropi, piccole fondazioni, ma anche grosse istituzioni come The Warhol Foundation. Abbiamo chiesto fondi anche allo State Department, alla Louisiana State Legislature e al City Council di New Orleans. Ci aiutano gallerie, o anche privati, governi stranieri, anche l’Istituto Italiano di Cultura ci aiuterà. Abbiamo anche molte società, ad esempio gli hotel W sono uno dei nostri sponsor. Abbiamo una struttura di sostegno fantastica e stiamo ancora facendo fundraising a trecentosessanta gradi. Abbiamo raccolto in dieci mesi ciò che normalmente si raccoglie in uno o due anni. Questo è quello a cui ci stiamo dedicando ora.
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a cura di micaela giovannotti
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 52. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
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