La musica del mondo

di - 28 Giugno 2015
“L’Hip Hop, dal Bronx alle strade arabe” all’Istituto del Mondo Arabo (fino al 26 luglio), è l’evento irrinunciabile dell’estate parigina. È una mostra che conta oltre 50 artisti e 250 opere, la cui direzione artistica è stata affidata al rapper Akhenaton del gruppo marsigliese IAM, pilastro del rap francese, e ha per filo conduttore la storia del genere musicale più adottato e popolare al mondo, che non ha mai smesso di entusiasmare giovani e non.
Immersi in un’atmosfera sonora e in una scenografa originale e dinamica, “L’Hip Hop, dal Bronx alle strade arabe” presenta opere storiche e create in situ di artisti americani, arabi e francesi. La mostra ci entusiasma sin dall’inizio con un’istallazione di oltre 50 ghetto-blasters o boombox, per lo più firmati da artisti del gruppo dei Block Painters, conosciuti perché dipingono su quegli enormi radioregistratori grazie ai quali la musica è arrivata per strada, ma qui siamo già negli anni ’80. Facciamo un salto indietro, all’estate 1973, anno in cui nasce l’Hip Hop, durante le blocs party (feste in strada) di comunità afroamericane e latine, in quello che veniva chiamato “il ghetto dei ghetti”, cioè nel South-Bronx, a New York. I suoi diretti fondatori sono il giamaicano Kool Herc, inventore del breakbeat d’jing e il mitico Afrika Bambaataa, di cui ricordiamo, tra le altre, l’immemorabile canzone Peace, Unity, Love and Having Fun. Nello stesso periodo vede la luce la Universal Zulu Nation, l’organizzazione internazionale pacifista ideata sempre da Afrika Bambaataa, in risposta alla violenza delle gang di quartiere.
Inizialmente, espressione di una cultura underground, l’Hip Hop attraversa le strade del mondo per diventare molto presto un fenomeno culturale vigoroso e irriverente, che esprime senza mezzi termini, ideali d’indipendenza. Un’arte transdisciplinare e autodidatta che dalle strade del Bronx e di Harlem, passa per la Francia degli anni ’80, per giocare recentemente un ruolo predominante nelle strade e nelle piazze del Nord Africa durante la rivoluzionaria primavera araba. Perché l’Hip Hop è soprattutto uno stile di vita, un modo di essere che si palesa, non solo col berretto e le classiche sneakers, ma soprattutto quando si fa pressante l’urgenza di reagire alla violenza, al sopruso, alla segregazione e alle loro più dirette conseguenze, come la povertà, e a sostegno di una dialettica libera e necessaria.
Un’arte che si esprime attraverso discipline come il Djing cioè l’arte del mixare la musica, il rapping o MCing ovvero l’abilità di cantare in rima, il Graffiti, la Breakdance, una danza libera e disarticolata, il Beatboxing in cui si usa la voce come uno strumento a percussioni. “L’Hip Hop, dal Bronx alle strade arabe” presenta un percorso espositivo che appare come un ricco e libero flusso di coscienza da cui prendono vita fili conduttori diversi, in cui primeggia inventiva e talento. E così dopo i boombox, non potevano mancare i vinili che, messi in commercio nel 1948, sono l’attrezzo indispensabile dei Dj e dei beatmaker. Insomma, strumento ma anche archivio di musiche passate a cui l’Hip Hop, attraverso il sampling, si è da sempre ispirato. Ma ecco pareti interamente ricoperte dalle più popolari copertine di dischi, tra cui riconosciamo James Brown, De La Soul, ma anche Public Enemy quelli del brano Fight the power, colonna sonora del meraviglioso film di Spike Lee, Do the Right Thing (1989), presente in mostra.
Non mancano i graffiti di Jean-Michel Basquiat visti attraverso le foto degli anni ’80 di Martha Cooper, tra i documenti fotografici anche Jean-Pierre Maéro con Concerto a Caillols (anni ’80, foto in alto), Laura Levine con Afrika Bambaataa (NYC, 1983), o Yoshi Omori con Ambiance Public Enemy (Paris, Le Globo, 1989). Tra i dipinti, Graffiti (2012, olio su tela) di Arilès De Tizi, Kehinde Wiley con The Three Graces 1881-1956 (olio su tela, 2012), Paul Insect, Afrika Bambaataa – Renegade of Rhythm, 2014-2015, ma anche il bellissimo ritratto di donna intitolato Aïcha, fra l’altro locandina dell’esposizione, un acrilico di Noé Two, tra le figure più emblematiche del graffiti francese. E con lui eccoci calati nella Parigi degli anni ’80, periodo in cui si vedono apparire i primi graffiti, che rinnovando l’idea di performance, capovolgono i codici artistici, le cui parole d’ordine erano: sorprendere ed eseguire, ma soprattutto essere velocissimi per evitare grane con la polizia.
Nel mondo arabo il graffiti è una pratica culturale corrente, la si trova sui muri dei negozi e delle case,  e si sviluppa naturalmente integrando i volumi della bellissima calligrafa araba, come emerge dal lavoro dell’artista Yazan Halwani Fayrouz. Calligrafo libanese, Fayrouz dipinge principalmente sui muri di Beirut (foto di copertina), ormai leggendario il suo murales che rappresentata la cantante Fairuz a Gemmayzeh, vicino Beirut, diventato per gli abitanti un vero e proprio punto di riferimento, tant’è che quando venne danneggiato, gli abitanti hanno chiesto all’artista di ridipingere la parte deteriorata. Infine, interessante l’opera Say It Loud! (2004) di Satch Hoyt, particolarmente interessato alla diaspora africana e alle sue conseguenze internazionali, l’artista londinese con quest’opera ne ha esplorato l’impatto culturale e politico. Attraverso l’assemblaggio di 500 libri su argomenti legati alla storia nera e collocati su una scala di metallo bianca, l’opera si completa con la registrazione del coro di James Brown che canta Say It Loud!I’m Black and I’m Proud!. Ma attenzione il congegno è stato alterato, infatti è disattivata la parola “black”, mentre in cima alla pila di libri c’è un microfono che invita gli spettatori ad esprimere il proprio concetto di orgoglio.
A corredo di una mostra sull’Hip Hop non potevano certo mancare diverse iniziative: così tra dibattiti ed incontri, troviamo la partecipazione eccezionale dell’IMA al Festival Paris Hip-Hop, che fino al 5 luglio è di scena nella capitale francese.
Foto in home page: Yazan Halwani Fayrouz, JdoudnaIkhtara’ou Al Sofor, Wa Ah’fadhom Sarou Sfoura (Nos grand-pères ont inventé le Zero, leur petits-fils sont devenus zéros), Gemmayzeh, Beyrouth, 2013

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