La perfomance che viene dall’Est

di - 14 Gennaio 2017
Nel  comunicato stampa che presenta l’esposizione The material body of art alla galleria AplusA  – in concomitanza con la Performance Art Week 2016, terzo e ultimo appuntamento della trilogia, a cadenza biennale, concepita dal duo Verena Stenke e Andrea Pagnes – vi è un passaggio concettualmente rilevante e che merita essere ripreso. Riguarda la connessione fra aspetti performativi e l’utilizzo della tecnica del collage. La cui concretezza sembra tradurre ciò che resta dalla ricombinazione delle immagini già date del mondo (fra collage e ready-made l’affinità è evidente), una volta siano state osservate, prelevate, modificate dal gesto artistico. Il collage è in ogni caso, letteralmente, un ritaglio, una forma di prelievo, di ricombinazione e di evidenziazione. È una tecnica minimale, fatta di niente, low tech. È anche un voluto azzeramento degli aspetti tecnicamente complessi dell’arte, che richiedono apprendistato accademico, così come del valore commerciale. Che la mostra alla AplusA si concentri su figure ed esperienze maturate nell’Est Europa, non è casuale, e non solo per la stessa storia dello spazio veneziano, punto d’appoggio culturale della Slovenia in città. Nell’Europa orientale, negli anni compresi fra la guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, e poi la progressiva influenza occidentale, si genera una complessa e articolata situazione artistica, dove le ascendenze, o gli echi provenienti dall’Ovest, vengono rielaborati e restituiti, utilizzando tecniche ‘povere’,  in modo tale da non smarrire mai il tono di un sentire e percepire la realtà dissimile da quello occidentale.
È quello a cui si dedica il progetto East Art Map (EAM), del gruppo Irwin, presentato nel suo primo step (East Art Map I – 1945-2000) all’esposizione “Museutopia” al Karl Ernst Osthaus Museum di Hagen. Il secondo step (East Art Map II) prende in esame gli anni successivi, ma soprattutto genera un archivio online attivo dal 2004, in progress, considerando la storia non come qualcosa di già dato, ma da costruire mediante contributi e riflessioni di molto soggetti, in forma di lavoro collettivo. Una sintesi grafica della EAM era presente nella sessione curata da Aurora Fonda per la Performance art week 2016. E alcuni lavori degli Irwin sono stati esposti al pianoterra della AplusA, compresa una seconda mappa concettuale, Retroprinciple, del 1996. La rilevanza del lavoro degli Irwin, nel suo insieme, costituisce un efficace punto di connessione fra il pregresso dell’arte est-europea e le ricerche di una nuova generazione di artisti. Fra le figure di maggior rilievo, di quel pregresso, va annoverato indubbiamente il ceco Jiří Kolář, del quale, alla AplusA, erano esposti due collages del 1977, dalla serie di lavori ricavati da celebri dipinti, (il Ritratto di Agnolo Doni e Santa Caterina d’Alessandria di Raffaello). Prodotti entrambi in un anno emblematico: quello di Charta 77, manifesto del dissenso cecoslovacco, fra i firmatari lo stesso Kolář.
Ad un decennio prima risalgono i lavori del gruppo OHO, “attivo in Slovenia”, come ricorda la puntuale nota di presentazione, tra il 1965 e il 1971: “Combinando un rigido concettualismo alla sperimentazione aperta, disegnando e trasformando diverse influenze e inventando forme originali e approcci, sviluppa un interessante, ricco, eterogeneo, e un coerente corpo di lavoro audace e innovativo. È stata la prima apparizione artistica ‘radicale – urbana – ideologica’ nell’arte moderna slovena”. In particolare con la performance ispirata alla forma della più celebre montagna del Paese, il monte Tricorno (Triglav in sloveno), mimato da tre componenti del gruppo, utilizzando un drappo nero per simulare la forma del massiccio, con le sole teste/cime che spuntavano. Il significato simbolico dell’atto performativo, pur se venato di ironia è chiarissimo. Le tre cime montuose comparivano nello stemma della Repubblica Socialista della Slovenia, così come in quello attuale.
Intorno alla densità del concetto di identità (socio-culturale, politica) si concentrano anche altri lavori in mostra. Basti pensare all’opera di Mladen Miljanović, che ha rappresentato la Bosnia-Erzegovina alla Biennale del 2013, mediante una particolare interpretazione di The Garden of Delights, trittico in marmo con figure riprese da tombe bosniache contemporanee. In mostra a Venezia sono stati esposti materiali che erano presenti alla personale dell’artista, Museum Service,  tenutasi al Mumok di Vienna nel 2010, lavori basati sulla vettura che ha contraddistinto la storia della Jugoslavia, la Zastava 101. Con Miljenović, si entra nel merito della più odierna produzione artistica, e della intermedialità dei diversi linguaggi utilizzabili dagli artisti. In fondo sia il collage di per sé, sia in relazione con la performatività sono aspetti che aprono all’attuale rapporto fra i diversi media. Ed è una condizione che si ritrova puntualmente in altri lavori esposti: a carattere più storico con i collages di Milan Knížák, Photo collage of performance, del 1972; di Daribor Chaterý, Untitled, del 1977 e del 1978; con l’assemblage Pro Paridovo Jablko (1985) di Běla Kolářová e, venendo ad una ultima generazione di artisti, con i lavori del duo Lenka Đorojević (montenegrina) e Matej Stupica (sloveno) che presentano un libro d’artista. Il duo, quasi a chiudere l’arco delle problematiche esposte nello spazio, ha vinto nel 2015, a Lubiana, l’OHO Group Award.
Riccardo Caldura

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