Viviamo nell’epoca del “libero mercato alterato”, in cui l’immaginario diventa una forza strategica del processo di valorizzazione del general intellect, e l’arte sembra perdere quella funzione punk (dada), quella capacità di critica catastrofica del reale, che le avanguardie moderne le avevano assegnato. Una riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte non può non partire dalla constatazione che,”in linea di principio”, “l’opera d’arte” – secondo il saggio del 1935 di Walter Benjamin – “è sempre stata riproducibile”. Nel caso della musica, poi, l’opera stessa esiste come ri-esecuzione. Ciò che interessa a Walter Benjamin, però non è la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e, soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. E così come con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge ad una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente, lo statuto del digitale vorrebbe farci credere che è in atto una trasformazione di tutto il mondo delle immagini in qualcosa d’altro dalla riproducibilità, ovvero c’è qualcuno che azzarda l’ipotesi, o ha già azzardato da tempo l’ipotesi, che il digitale ri-divenendo l’emanazione di una potenza creativa infinita/espansa, riacquista l’hic et nunc dell’opera d’arte viva, ovvero la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Dal 2013, all’interno dello scenario sull’esplorazione e la ricerca della RV si sono inseriti gruppi che hanno concentrato le loro energie sulla conferma del paradigma benjaminiano della riproducibilità.
Uno di questi è la community di Vitruvio Virtual Reality, che opera a Bologna ed è coordinata da Ubaldo Righi. I VVR di Bologna partono dall’assunto di Vitruvio secondo cui la scenografia è la resa illusionistica della facciata e delle pareti laterali e la corrispondenza delle linee in riferimento al centro del cerchio. In questo caso il centro è individuato dalla riproducibilità tecnica dell’opera. E se questi sono alcuni dei temi sui quali Vitruvio Virtual Reality, in occasione delle loro Realtà Possibili, raccontano i loro progetti, il medialismo dilaga più della dimensione espansa della stessa realtà virtuale. La narrazione della community VVR è rappresentata da: Synapse (l’opera d’arte virtuale immersiva da loro realizzata in collaborazione con E.T. De Paris); la Casa do ut do (la Casa virtuale immaginata da Alessandro Mendini con stanze di A. Biagetti, M. Cucinella, R. Dalisi, M. De Lucchi, S. Giovannoni, A. Guerriero, M. Iosa Ghini, D. Libeskind, A. Naj Oleari, T. Pecora, R. Piano, C. Silvestrini, N. Vigo); What IF (la riproducibilità tecnica nell’epoca dell’opera d’arte, la mostra immersiva realizzata in occasione di Arte Fiera 2020); Il Decalogo (la sintesi che racconta il punto di vista del Gruppo Vitruvio sul fare artistico odierno). Il topos problematico della riproducibilità tecnica ha un forte potere di richiamo: la stessa parola riproducibilità emana una tale fascinazione, da indurre quasi a dimenticare che in effetti la Vitruvio Community coinvolge un binomio di grande attualità, perché dedicata al tema riproducibilità e new media. La questione dei media è un punto fermo, perché di particolare interesse è appunto il gioco di rimandi che si instaura a partire dall’opera di De Paris: occuparsi di immagine, installazione, multimedialità e 3D significa, di volta in volta, ridiscutere la classica questione del rapporto fra l’intensità mediale di un artista come De Paris e la scorrevolezza del suo aggiornamento virtuale.
Integrati da molteplici contributi di alcuni fra i più pungenti critici, storici, tecnologi, architetti, I VVR rilanciano in maniera originale gli interrogativi fondamentali sulle funzioni dell’arte, sui suoi rapporti con i processi sociali, sul suo ruolo nel convulso mescolarsi di reale e immaginario, che caratterizzava già le curatele di manifestazioni come “Arte e Digitale in Italia” (1997), “Virtual Light” (1996), “Primalia” (2004), “Techne 02” (2002), etc… . Tuttavia, “l’epoca dell’opera d’arte” cui il titolo di mostra si dedica o si è dedicata non dovrebbe riferirsi all’arte espansa, ma a tutte le propaggini del medialismo che venne formulato in epoca di grande anticipazione, ovvero tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90. Del resto Synapse di E.T. De Paris rientra a 360° nella nozione algoritmica di riproducibilità, offrendo un labirinto a struttura molecolare progettato e popolato dal più sensibile medialista torinese degli anni ‘90. Con Synapse, lo spectator entra come parte attiva dell’opera d’arte, gioca il ruolo di creativo e di lettore consapevole e diventa a sua volta opera nell’opera, esponendo la perfezione più recente della VR. In effetti, l’occhio e i segni di De Paris si muovono liberamente tra le stanze, vengono stimolati da piccoli oggetti volanti ed entrano in contatto con diverse figure virtuali. Simboli, allegorie, emblemi, metafore si scatenano, restituendo suggestioni, fantasmi e particelle infinitesimali di mondi paralleli. La sperimentazione di De Paris porta ad immergersi in luoghi della mente, il risultato è l’evoluzione del pensiero e dell’attenzione alla vita, opere ibride e convergenti: opere come attrattori di nuove visioni ed esperienze mediali.
Qualcosa, di De Paris, fa subito subodorare un miracolo cromatico: il suo linguaggio immersivo. Una densità concettuale imprevedibile cala in figura di folgore nello spazio dei media, lasciando sui lembi dei luoghi virtuali una lenta eco di spazialità infinita e riproducibile, che svanisce e si rigenera a partire dal suo planare. Il suo colore è nuovo: la novitas – in questa lingua di nuova generazione, utilizzatissima, praticissima, nell’uso delle applicazioni digitali, nel teatrino del web, tra le più fantasiose strip e illustrazioni – è sempre paradossalmente letteraria. L’operazione di De Paris, ovvero piegare il mediale come veicolo del paradosso, è certo più naturale che piegare al contraddittorio il linguaggio analogico, la novità del fumetto. Il suo spirito immersivo non diventerebbe nè miracolo linguistico, nè realtà virtuale se non si riscattasse come strumento di puro attraversamento cromatico, o metodo per viaggiare. Qui è la creazione del riproducibile, in cui è anche lecito sospettare un’iconografia dissimulata, la scheggia caduta nel nuovo universo, nelle grandi vesciche del colore, della gelosia dell’infinito. De Paris, disegnando, crea e ricrea, ricostruisce processando metropoli e paesaggi, ritrova l’attuale nel punto Omega della sua anticipata decostruzione, fa rivivere qualche icona eletta con i suoi enigmi storici, le sue introversioni, le sue corporalità, le sue poesie. De Paris non toglie il punto dell’infinito dall’infinito, neppure bestemmiando, negando e satireggiando sullo spazio, proprio là dove il nascosto si fa particola dell’algoritmo, così come le sue istallazioni divengono architetture immateriali, dove ai volumi si sostituiscono le immagini tridimensionali.
Le pubblicazioni di VVR ripercorrono in maniera fresca e scorrevole tutta l’attualità della dimensione percettiva virtuale, a partire dalle sue profondità nell’opera di De Paris, dove già negli anni ‘90 veniva sviluppata in quanto tridimensionalità anologico-virtuale. Il successo del lavoro dei vitruviani, si deve non solo al suo fascino applicativo, ma principalmente alla sua capacità di sublimare la finitezza in arte, fino a delineare un vero e proprio stile di situazionalità e di trascendentalità.
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