A Villa Vertua Masolo, a Nova Milanese, si è aperta lo scorso 20 maggio la seconda edizione di “Stupido come un pittore”, il progetto di Rossella Farinotti e Simona Squadrito che rende attuale la famosa boutade di Marcel Duchamp.
Ed è così che la pittura ancora una volta si dimostra lingua viva, o almeno sopravvissuta, con i giovani Giovanni Copelli, Linda Carrara, Giacomo Montanelli, Giulio Saverio Rossi e Michele Tocca, a confronto con Mimmo Germanà, outsider della Transavanguardia, scelto per l’iconicità del suo stile.
Scrive Alberto Mugnaini nel testo che accompagna la mostra: “Che questi giovani autori siano tutto l’opposto dello stereotipo dell’artigiano della tavolozza invischiato nelle sue mestiche e incapace di districarsi dalle forzate traiettorie della sua manualità per elevarsi alle superiori sfere del pensiero, è un dato di fatto, ma, prendendo in controbalzo la palla che Duchamp ci ha lanciato, vediamo se ci riesce di prendere in contropiede anche questo luogo comune cercando di cogliere in esso un sottofondo di senso rimosso”.
Ci abbiamo provato architettando, con la complicità delle curatrici, una “dichiarazione d’intenti” da parte dei diretti interessati, i pittori. Per capire quanto si può essere – più che stupidi – stupiti.
Giacomo Montanelli intervista Linda Carrara
Linda Carrara intervista Giulio Saverio Rossi
Giulio Saverio Rossi intervista Giovanni Copelli
Giovanni Copelli intervista Michele Tocca
Michele Tocca intervista Giacomo Montanelli
Stupido come un pittore #2, installation view_Linda Carrara, Giulio Saverio Rossi, Villa Vertua Masolo, 2018. Ph. Alessio Anastasi
Giacomo Montanelli: Linda, per la mostra, come me, hai lavorato nello spazio e sullo spazio, ma l’hai fatto utilizzando una visione non propriamente pittorica (dimmi se mi sbaglio), i tuoi finti marmi danno un aspetto funereo alla mostra e quando, in alcuni casi, accolgono le pitture, sembra che queste diventino come un lapidario. Cosa significa per te appendere una pittura, ovvero qualcosa che ha a che fare con la finzione, su un’altra pittura che parla specificamente di illusione?
Linda Carrara: «A dire il vero mi rifaccio al marmo proprio per il significato opposto, le sue linee rimandano immediatamente alle vene tant’è che hanno lo stesso nome, venature. In più il finto marmo è sempre stato utilizzato nelle chiese come modo per “andare oltre”: per sognare e per condurre il credente in un mondo quasi onirico e di speranza. Nella pittura di finto marmo dei grandi artisti del passato, credo che risieda l’unica liberà pittorica svincolata da un soggetto canonico, possiamo quasi considerarlo il primo tentativo di astrattismo, tant’é che alcuni finti marmi di Mantegna o di Giotto hanno aperto la possibilità del dripping. Dunque, anche se tramite disegno, credo che questa carta da parati rimandi altamente alla sfera pittorica ed è proprio per questo che ho scelto il titolo in versione francese “papier paintre” cioè “carta dipinta”. Pertanto credo che la finzione e l’illusione siano veramente prossime. Il fatto che la mia carta da parati accolga la pittura di altri, credo permetta un dialogo e un’apertura, una visione diversa dell’opera stessa e allo stesso tempo riecheggia ciò per cui il marmo è stato usato: fondale, pianale, piedistallo, cornice e magia naturale».
Stupido come un pittore #2, installation view_Linda Carrara, Giulio Saverio Rossi, Villa Vertua Masolo, 2018. Ph. Alessio Anastasi
Linda Carrara: Giulio, qual’è l’indagine o l’interesse che ti porta a sperimentare la pittura tramite una casistica numerica, digitale ed analitica? Questa sorta di analisi “2+2=4 / 2+2=2+2 / 2+2=3+1” immagino ti aiuti a staccarti dalla pittura intesa come riproduzione del reale o dalla figurazione per un mondo più alchimistico/scientifico di pensare alla pittura. Quale credi sia la necessità che ti ha condotto a questo modus operandi?
Giulio Saverio Rossi: «Rispondo con una frase da Nostalghia di Tarkovskij: “Una goccia più un’altra goccia fanno una goccia più grande, non due”. Penso che nella mia ricerca si possa parlare di questo tipo di operazione non equivalente, in cui la materialità contraddice sempre la costruzione logica che la precede. Il linguaggio rigido e astratto di una formula, di una teoria, di un pattern, o di quell’insieme d’impulsi che creano l’immagine digitale è subito contraddetto dalla liquidità del materiale o dalla vischiosità dei colori ad olio. L’opera si compone nella compresenza di questa contraddizione all’interno del risultato finale, oscillando fra casualità e causalità».
Mimmo Germana, Senza Titolo, 1987, 35x 48cm. Credit Room Galleria
Giulio Saverio Rossi: Ciao Giovanni, la tua ricerca fonde un mondo archeologico dal sapore romano e un forte interesse nei confronti del sentimento umano per eccellenza ossia l’amore, all’interno del quale confluiscono elementi della tradizione cristiana come la pietà. Si può parlare del tentativo di una costruzione mitologica dell’amore? E, in questa dinamica, come s’inserisce la pittura?
Giovanni Copelli: «L’elemento che emerge in modo grafico in tutta una serie di miei lavori più che fare riferimento all’amore fa riferimento più specificatamente all’eros. L’eros spesso sinonimo o confuso con l’amore è probabilmente una sottocategoria del secondo e non necessariamente la più chiaramente derivabile. L’immagine della Pietà in effetti circoscrive questa ambiguità: da una parte sono attratto dalla dimensione erotica che traspare in questa immagine (il corpo nudo del Cristo nelle braccia della madre) dall’altra anche da una dimensione dell’affetto e dell’amore verso il dio, del significato del sacrificio e dell’atto d’amore che il sacrificio sottende. La mia pittura è una pittura espressionista, da questo, da un punto di vista formale, appare chiaro che sono interessato al sentimento, all’emotività e dunque all’amore».
Giacomo Montanelli Leoncino 25×30 cm acrilico su tela 2017
Giovanni Copelli: Michele, trovo molto interessante che oltre che essere un pittore, affianchi al tuo lavoro artistico un impegno teorico importante. In che modo si conciliano questi due modi di operare? Come influisce il tuo essere teorico nell’essere artista e viceversa?
Michele Tocca: «In generale, scrivere di pittura supplisce ad una mancanza e ad un bisogno di riflessione verbale su qualcosa che verbale non è, colmando o ampliando quei vuoti che si creano, quando si dipinge, tra il pensiero, l’intenzione, l’azione e il risultato – lo stesso, ma viceversa, che può fare la pittura. Il bisogno di contribuire anche infinitesimamente a vedere o leggere cose che non vedo e leggo. Sono due mondi che si incontrano sul piano critico ed ermeneutico. Scrivo soprattutto di pittura di altri artisti che trovo sia un modo più interessante di riflettere attivamente sul mio lavoro. La conciliazione si è formata in maniera per me molto naturale per quanto non senza difficoltà e incomprensioni. Quando dipingiamo o scriviamo, siamo ovviamente sempre in dialogo – domandiamo, proseguiamo, aggiungiamo, togliamo, ribattiamo, contrastiamo – con altri dipinti e scritti passati e presenti. Mi è sempre capitato di appassionarmi ad artisti che scrivono, per menzionarne pochissimi penso a Henri de Valenciennes, André Derain, Roberto Melli, Carlo Carrà, Jean Hélion o Fairfield Porter. Poi ho iniziato idealmente a rispondergli dalla prospettiva di un pittore di oggi».
Giovanni Copelli, Grande natura morta con cazzo svettante, olio su tela, 140x140cm, 2017
Michele Tocca: Giacomo, guardando al tuo lavoro in generale, emergono interessi che spaziano dalla decorazione all’oggettualità, passando per i generi della pittura. Nel dipinto sulla porta murata realizzato per la mostra “Stupido come un pittore #2”, mi sembra ci sia una diversa consapevolezza e una maggiore immediatezza nel confronto con questi e altri aspetti primitivi/basici della pittura – in particolare la pittura parietale, il trompe l’oeil con i suoi slittamenti percettivi; l’escamotage visivo della griglia; la piattezza e il suggerimento di una distanza. Lo consideri un intervento legato a questa occasione? Lo vedi come un inizio possibile o fa parte di tue riflessioni recenti?
Giacomo Montanelli: «Prima di rispondere, Michele, ti ringrazio per aver letto questi elementi nel mio lavoro. Questo intervento in particolare è stato progettato per l’occasione, per una serie di circostanze accidentali che mi hanno stimolato. Con questo intendo dire che un lavoro del genere lo stavo pensando già da tempo, ma non avevo mai trovato il modo di realizzarlo come avrei voluto. Il fatto che Villa Vertua Masolo abbia delle suggestioni decorative molto interessanti da dare una lettura chiara del lavoro, mi ha aiutato nelle scelte decisionali. Per concludere in chiarezza posso dire che è un lavoro che vedo anche altrove, con altri mezzi e tecniche, ma che in villa, per questa occasione, si addice bene. Per rispondere alla seconda domanda, Paesaggio marino con caccia rientra nelle logiche del mio lavoro fino ad oggi, fatto di un interesse specifico per la pittura e per la composizione formale».