New York, Manhattan, 4 maggio ore 1am, sono con Gian Maria Tosatti (Roma, 1980), che da quasi un anno è in residenza al Lower Manhattan Art Council. Con lui comincio un piccolo viaggio alla scoperta di una città fuori dagli itinerari turistici e dell'”infotainment culturale”. Tosatti è un artista visivo che viene dal teatro sperimentale e la sua ricerca, particolarmente intensa sia intellettualmente che emotivamente, indaga quel particolare territorio ibrido che funge da cerniera tra arti visive e architettura, realizzando minimali installazioni “site specific” in luoghi abbandonati e di grande fascino.
La metropolitana ci inghiotte nel suo ventre sinuoso e dopo aver cambiato tre treni risaliamo sulla superficie per me sconosciuta del Bronx, un quartiere che prima della crisi del ’29 era stato concepito come ideale continuazione di Manhattan, con un grande viale centrale dal nome pomposo, Grand Concourse, fiancheggiato da bellissimi palazzi patrizi sfregiati da anni di incuria. Qui sorge l’Andrew Freedman Home, una signorile magione che il signor Freedman, ricco finanziere di Wall Street e filantropo, fece costruire negli anni Trenta per ospitare con un certo lusso gli anziani ex ricchi che la crisi aveva ridotto sul lastrico. Una sorta di ospizio glamour in cui poter continuare a celebrare una parvenza di benessere con i rassicuranti riti della borghesia americana, tè delle cinque e pranzo la sera in lungo. Questo strano ricovero è stato attivo fino agli inizi degli anni Ottanta e poi, una volta abbandonato, anche per lui sono cominciati l’oblio e il declino.
Nel 2008 un gruppo di giovani e intraprendenti curatori, il “No Longer Empty”, si è rivolto al “trust” che possiede molti dei palazzi più belli del Bronx per proporre un utilizzo creativo di quegli splendidi spazi abbandonati, un bell’esempio di cultura come volano per attivare l’economia e per far rivivere non solo i luoghi ma anche il tessuto sociale del quartiere. Tosatti è uno dei trenta artisti scelti per intervenire, in una delle stanze al primo piano, con un progetto ispirato dalle suggestioni evocate da quel luogo denso di memorie. Sono ricordi intimi quelli che si sovrappongono nella camera con bagno scelta dall’artista per raccontare un mondo scomparso, deteriorato dalla luce che per trent’anni si è concentrata sugli stessi punti al punto da fossilizzare l’ambiente “vetrificandolo”. Un pomeriggio dell’infanzia, una visita con la nonna a un’amica un po’ stramba, un salotto piccolo-borghese con una vetrinetta in cui sono conservate delle boccette di vetro colorato, un raggio di sole che le colpisce, un’immagine gozzaniana di “piccole cose di pessimo gusto” che rimangono impresse nella mente dell’artista e che a distanza di vent’anni riemergono dall’inconscio per essere raccontate dentro la triste stanza con bagno di un ex ospizio del Bronx.
Il pavimento ricoperto da un mosaico di vetri rotti recuperati all’interno dell’edificio, in fondo lo schedario di metallo bianco con le cartelle dei pazienti in perfetto ordine nei cassetti, tutte le vite che sono passate fra quelle mura e che sono sparite lasciando solo la traccia ancora indelebile del loro nome. La vetrinetta sulla parete di destra è di metallo bianco, tutto è immobile, stretto nella morsa del tempo, un ricordo che sembrava rassicurante nell’elaborazione inconscia si è formalizzato in un’installazione affilata e angosciante.
Di nuovo nei cunicoli della metropolitana per una corsa lunghissima che dalla punta nord di Manhattan ci deve portare all’estremo sud, in fondo al Meatpacking district per riuscire a salire sull’ultimo traghetto per Governor’s Island, un’isola che è stata proprietà dell’accademia militare e che “chiude” alle 7 di sera. Un posto bellissimo, con eleganti edifici di fine Ottocento in mattoni rossi, curati prati verdi, alberi secolari e una vista mozzafiato di Manhattan. In questo giardino dell’Eden il “Lower Manhattan Cultural Council” ospita gli artisti in residenza. Gian Maria Tosatti ha lavorato qui per sei mesi e in uno dei nuovi edifici costruiti negli anni Ottanta per ospitare i militari ha realizzato il suo primo lavoro americano “site specific”.
La riflessione concettuale alla base del progetto è partita da una valutazione critica sulla città, New York che, nella mitologia collettiva sviluppatasi dal dopoguerra in poi, è l’Eldorado contemporaneo, «The city that never sleeps e where the dreams come true», come cantava Liza Minelli, ma anche un luogo in cui ci si perde nel turbinio di una folla anonima e sradicata. Tosatti ci racconta una New York come una sorta di “No man’s land” un luogo in cui è difficile instaurare dei rapporti sociali duraturi proprio perché chi arriva non è detto che si fermerà. Quasi tutti vengono da un altrove e in “the Big Apple” devono dare il massimo tenendo conto che forse solo un 5 per cento ci riesce, sfonda, mentre il restante 95 per cento soccombe.
La città diventa la metafora del modo di vivere contemporaneo dominato dall’individualismo, dalla solitudine e dalla fine del senso di comunità. L’installazione di Tosatti sembra quasi oggettivare le parole della poesia “America” di Allen Ginsberg “America ti ho dato tutto e ora non sono nulla…America quando finiremo la guerra umana?”. Soprattutto racconta ciò che rimane, cosa resta della vita delle persone che transitano nei monolocali in affitto, dei loro sogni e delle loro aspirazioni.
Nei lavori di Gianmaria Tosatti si entra da soli, c’è odore di chiuso e di umido squallore, l’appartamento è vuoto, a terra solo le tracce dei mobili, invisibili presenze di una vita in transito, nell’ultima stanza un lavandino attaccato al muro e girato al contrario sgocciola sul pavimento, il nostro vissuto, il luogo da dove veniamo, ricade sempre sul presente. Le memorie apparentemente innocue dell’infanzia si intrecciano con il presente, il lavandino è come quello che stava in un angolo della stanza adibita a doposcuola durante gli anni delle elementari ed è al contrario in quanto il soffitto diventa il pavimento delle proiezioni dell’artista. Nel secondo appartamento Tosatti ha lavorato sullo sviluppo della doppia percezione della realtà grazie alla ripetizione di tre stanze in fila apparentemente identiche. Sono stanze specchiate e tu sei lì che ti domandi quale sia quella vera, anche il corridoio sembra infinito ma è solo un’illusione, una bugia come quelle che ci racconta il mito della città dove tutto sembra possibile.
Con un salto quantico da Governor’s Island New York ritorno in Italia, a Novara, luogo dove Tosatti ha realizzato una grandiosa installazione ambientale nella ex villa Bossi, forse il più bel palazzo neoclassico d’Italia, realizzato dall’Antonelli e abbandonato per 30 anni. Una storia dimenticata diventata polvere, l’immateriale presenza del tempo che passa e che dà il nome alla mostra “Tetralogia della polvere” curata da Alessandro Facente e Julia Draganovic.
Come nel Bronx anche qui la luce è la protagonista e la causa dello sfaldamento delle architetture e degli arredi, la luce che mangia e corrode, che mummifica e vetrifica uno spazio di 5mila mq, con quattro scale che raccontano epoche e vite, fasti e miserie di una folla umana ormai scomparsa. Il luogo è gravido di memorie, la casa è trattata dall’artista come un organismo vivo e pulsante che nell’isolamento ha riprodotto con paziente ostinazione ogni cosa al suo interno. Sul terrazzo del cortiletto all’ingresso l’edera ormai secca è stata come riprodotta dalla vernice verde degli infissi che col tempo si è progressivamente “sfogliata” fino a sembrare una sorta di verde vegetale rampicante. Fra realtà, immaginarie proiezioni, sogni e letteratura si snodano ritmicamente gli interventi minimali e mimetici di Tosatti. Entrare in quelle sale silenziose, in cui la tappezzeria lacera disegna graziose volute sul muro e l’intonaco si stacca in frammenti leggeri che ricordano le ali delle falene in una sorprendente sovrapposizione di vegetale, animale e strutturale è come intraprendere un viaggio, non solo alla scoperta di un luogo fisico ma, soprattutto, all’interno di noi stessi.
Tutto il lavoro di Casa Bossi ci conduce in un doppio percorso esterno-interno, dove la casa diventa metafora del nostro vissuto e di tutte le stratificazioni emozionali che lo rivestono. Scale, abbaini, sprazzi di un lusso che ormai è solo un ricordo ingiallito ma anche stanzette modeste, letti adatti a una piccola vita e bagni opulenti e ancora scale imponenti e scale di servizio, piani alti e piani bassi, proprio come nella vita. Una casa che è una perfetta metafora dell’esistenza, una casa che per trenta lunghi anni è stata un luogo negato, abbandonato e dimenticato e che grazie alla potente visione di un artista complesso può diventare il motore per la rinascita culturale di una cittadina che oggi non ha più neanche un cinema.
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Questo gusto quasi feticistico e contemplativo della traccia del passato è ancora una volta sintomatico. Una generazione di giovani artisti che rispecchia una generazione di giovani più larga, che vive un paese per vecchi, direi un occidente per vecchi. SET malinconici e vuoti, molto facili perchè la retorica del passato sembra essere l'unica via per dare contenuto e valore. Molto facile, tutto molto rassicurante e innocuo. Sorrisino, assegno e pacca sulla spalla.
I più giovani si fanno abbindolare e comprare dalla Nonni Genitori Foundation perchè il paese ha un grande risparmio privato (vorrei sapere da dove vengono i fondi per intervenire su palazzo Bozzi a Novara...).Vorrei sapere di cosa vivono i ragazzi di MACAO per poter stare tutto il giorno a ballare e organizzare laboratori creativi...quel risparmio- paradossalmente- è la condanna del futuro dell'italia e non solo.
Consiglio il video su Macao del 1987 e poi del 2012 in:
1987-2012: being maurizio cattelan: http://www.whlr.blogspot.com
LR