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13
febbraio 2015
La rivelazione della scultura
Progetti e iniziative
Madrid dedica la prima grande mostra a Luciano Fabro, a otto anni dalla sua scomparsa. L’ennesima occasione persa dall’Italia, incapace di investire nei suoi artisti migliori
«La sola storia d’Italia è la storia dell’arte». Per Luciano Fabro (1936-2007) il rapporto con l’arte del passato era fondamentale: un patrimonio sconfinato dal quale attingere in maniera consapevole per affrontare una responsabilità storica, legata a un’idea di opera profondamente umanistica, propria dell’identità italiana, in grado di affrontare la complessità del presente con uno sguardo radicato nel passato. Un’attitudine che emerge in maniera chiara e precisa nella prima retrospettiva dedicata a Fabro dopo la sua morte, curata da Joao Fernandez in collaborazione con Silvia Fabro, e mirabilmente allestita nel Palacio de Velazquez di Madrid, in modo tale da creare uno stimolante dialogo tra le opere esposte, per ricostruire l’excursus di Fabro e soprattutto la sua complessità.
«Non mi interessava presentare l’opera di Luciano in ordine cronologico, ma lavorare su nuclei tematici di opere che potessero dialogare tra loro, in modo da far comprendere al pubblico il pensiero dell’artista», spiega Fernandez. Non a caso l’incipit è affidato a Prometeo, definito da Silvia Fabro come l’opera più complessa dell’artista: una struttura geometrica composta da 8 stadie, 8 paline da geologi e 8 colonnine di marmo, allestite in modo tale da comporre un triangolo e un pentagono iscritti in un cerchio. Realizzata nel 1986 dopo l’esplosione della centrale russa a Chernobyl, rappresenta la risposta di Fabro ad un evento che, a suo avviso, «sanciva la fine dell’umanesimo ed era una diretta conseguenza della lotta prometeica dell’uomo per dominare l’universo e della sua distruzione delle forze della natura». In effetti, l’intera mostra può essere letta come un percorso che procede dall’arte verso la scienza, che corrisponde all’evoluzione della possibilità dell’artista di piegare la materia verso una forma concettuale, senza per questo dover rinunciare alla sua componente fisica, ma in alcuni casi esaltandola. Un esempio di quest’atteggiamento è la serie dei Piedi, che l’artista realizza dal 1968 al 2000: una serie di piedi monumentali realizzati in materiali diversi e rivestiti di stoffe colorate, che compongono un surreale paesaggio verticale in una delle sale più forti della mostra, simile alla sala personale di Fabro alla Biennale del 1972, quando presentò per la prima ed unica volta 9 piedi di vetro trasparente, rivestiti di seta azzurra. «In principio – raccontava Fabro – c’è la plasticità, e non lo scheletro; ed è proprio la plasticità a determinare quella rivelazione chiamata scultura; l’ho chiamata rivelazione perché visione vale più per la scultura».
La rivelazione della scultura analizzandone la componente plastica, mettendola in discussione fino a poterla annullare nello spazio: questa è una possibile chiave che propongo per spiegare la riuscita della mostra. Non si può nascondere l’emozione di vedere dal vero Lo Spirato (1972) , una delle opere scultoree più importanti della storia dell’arte italiana degli ultimi cinquant’anni: il calco del corpo dell’artista ricoperto da un lenzuolo che ne trattiene l’impronta una volta che il corpo è sfilato via, che Fabro concepisce come «una proposizione: ciò che sta tra il pieno e il vuoto, non un soggetto preesistente, né reale né irreale, né racconto. Presentato alla mostra Contemporanea al parcheggio di Villa Borghese nel 1973, ispirato al Cristo Velato della cappella Sansevero a Napoli e a sua volta fonte di ispirazione per All di Maurizio Cattelan, costituisce un esempio del rapporto che l’artista intrattiene con la materia e lo spazio, poi sviluppato in un’altra serie fondamentale e vista pochissimo in Italia: gli Attaccapanni (1976/77). Anche qui, l’opera si struttura nel rapporto tra pieno e vuoto, pesante e leggero: le strutture portanti dei tessuti tinti con i colori di un immaginario tramonto su Napoli sono fusioni in bronzo di fogge diverse, che vanno dalle foglie di alloro ai frammenti di una fune, e il loro andamento condiziona la caduta delle stoffe. Una prova della capacità di Fabro di trasformare dei panni appesi in un’opera poetica pur nella sua essenzialità, in dialogo ideale con un’altra opera esposta a Madrid: Tre modi di mettere le lenzuola (1968), che nella loro semplicità attivano nello spettatore un’interessante analisi della possibilità dell’artista di interpretare oggetti comuni in modo da evocare pensieri e riflessioni profonde.
E vorrei concludere queste annotazioni nella sala dedicata alle Italie, forse la più intensa dell’intera mostra, almeno per il visitatore italiano. Questo insieme di opere legate alla stessa forma, il profilo geografico del nostro Paese, costituiscono un repertorio di immagini legate ad una passata nobiltà, ormai estinta. Fabro ha interpretato l’Italia pensando alla sua storia, alle sue contraddizioni ma anche alla sua antica dignità. «L’Italia è immagine per chi la riconosce, per chi in qualche modo se ne sente legato, ed in parte ha a che vedere col simbolo che ne è la riduzione morale: la riduzione della forma a grafico delle idee. Ma per me forma rimane trasmigrazione della materia», ha scritto l’artista.
Oggi questo paesaggio di opere legate all’evoluzione della penisola dal 1968 all’alba del XXI secolo assume un aspetto profetico. Sembra comporre il ritratto di un Paese smarrito, che non è in grado né di riconoscere né di celebrare i suoi maestri lasciando questo compito a istituzioni straniere: è successo con Boetti qualche anno fa, succede oggi con Fabro e succederà tra poco con Burri, festeggiato nel centenario della nascita al Guggenheim di New York. Se, come diceva Luciano, la sola storia d’Italia è la storia dell’arte, perché l’abbiamo cancellata?
Ludovico Pratesi