Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
27
luglio 2018
La rivincita dei piccoli borghi
Progetti e iniziative
Certe cose accadono quando l'arte contemporanea ti segue ovunque, e arriva dove meno te l'aspetti. Vi proponiamo un viaggio nella provincia aquilana. Destinazione Pereto
Pereto, provincia de L’Aquila, quasi al confine col Lazio, uno dei tanti paesini pittoreschi che rendono altrettanto pittoresco agli occhi del mondo intero il territorio italiano. Pereto è un borgo arroccato alle pendici dell’Appennino abruzzese, da cui si gode una vista bellissima divisa tra panorami a perdita d’occhio e montagne incombenti. Pereto, evviva. Ma cosa dovrebbe spingerci ad andare tutti lì? Che ci sarà mai a motivare un essere umano, magari anche dalla mentalità molto “urbanizzata”, ad andare in un posto dove la gente assiepata fuori dal baretto e dalle attività limitrofe ti guarda con occhi incerti, che tradiscono un “E chi è questo, che ci viene a fare qui?”, e delle signore sedute mentre chiacchierano dei fatti loro fuori dalla porta di casa con la tipica cadenza abruzzese dicono “Ma questi che vengono a vedere a Pereto, qui ci sono quattro gatti”, riferendosi ad un lungo codazzo di forestieri che lentamente scarpinano tra i vicoli nell’opening più impegnativo della loro vita? Ve lo dice il vostro Exibart, che diligentemente a quella fiumana – a tratti simile ad un esodo biblico – ci si è unito. Pereto fino al 5 agosto si anima (si anima forse è un parolone, più che altro si risveglia dolcemente, in linea coi suoi ritmi e possibilità) grazie a Paola Capata, Delfo Durante e Saverio Verini, che in questo borgo hanno trovato il teatro giusto per una pièce i cui protagonisti sono territorio ed arte contemporanea. Pereto ha l’identità storica, morfologica e sociale giusta, il suo essere fuori dal tempo abbinato all’essere a tempo dell’arte contemporanea crea uno spezzato di gran classe. Il nome del progetto poi, Straperetana, prelude già a qualcosa d’ambizioso.
Straperetana – installation view – photo Andrea Rossetti
Capata e Durante ci hanno messo l’idea, Verini la curatela, e se Straperetana nell’edizione 2018 – la seconda – funziona, non lo deve sicuramente al pruriginoso e stra-noto format dell’incontro antico/moderno, ma allo sforzo di creare un’interazione tra parti in causa che non appaia mai pretestuosa, anche al netto di qualunque sacrosanta critica si possa muovere. Ovvio che se su un totale di diciassette nomi ne porti anche qualcuno tosto ed altisonante la strada verso il successo sarà sicuramente meno tortuosa delle stradine di Pereto. Dal mucchio estraiamo subito quello di Flavio Favelli, che in Straperetana lancia il guanto di sfida alla street art, convinto che questa «Non debba avere il monopolio». Per noi è l’eroe di Straperetana, anzi se questa fosse una gara a premi sarebbe il nostro vincitore: il suo site specific è perfetto nel profanare un muro di Pereto per riprodurre l’intestazione del mitico “settimanale di politica, attualità e cultura” Oggi, datato 29/10/1986 e dal prezzo di ben duemila lire, un elemento che, racconta, «Avevo isolato tre-quattro anni fa». Ma il golden mid-career vincerebbe anche solo per le buone intenzioni dimostrate nello svelare che «In lizza per il progetto c’erano un Gente, oppure un Sorrisi e Canzoni con fondo oro, poi assieme al proprietario del muro abbiamo scelto questo». Una stretta di mano virtuale e sincera all’abitante di Pereto in questione per quelle quattro lettere rosse ombreggiate di nero, cubitali ed inconfondibili, che a affondano negli anni Ottanta per intrappolare un senso di «Sfasatura temporale», per dirla con le parole di Verini. Affezionato cliente dei ritorni dal passato, Favelli in questo caso lavora sul tempo con diverso spirito, servendosi dell’ambiguità che in noi crea quell’immagine/parola, indicando il presente, un decennio epocale, anzi un giorno ben preciso di un oggi che paradossalmente oramai è ieri, con la striscia che annuncia l’inserto dedicato alla “bella provincia italiana” ad aumentare la pertinenza dell’intervento e, perché no, a costituire una sviolinata abruzzese. Flavio comunque sappi che aspettiamo il Sorrisi e Canzoni, ci contiamo.
Gli altri partecipanti hanno una curva di “nazionalpopolarità” nettamente più bassa del flavione nazionale, intendendo il termine “nazionalpopolare” non come un marchio negativo. Corrono sul pezzo, alcuni anche in maniera molto radicata nell’ambiente come Francesco Alberico ed i suoi tirafumo in salsa “umanoide”; è che semplicemente possono risultare meno calati nella parte e più sulle loro, adattati più che adatti alla struttura espositiva di un percorso in cui «Passando da un’opera all’altra si entra in contatto col borgo» come asserisce Verini, a volte giocandosi la presenza come protagonisti di un classico effetto di evangelizzazione contemporanea in un luogo di miscredenti. È il caso di fare un secondo nome, quello di Alfredo Pirri. Un nome col botto, ma che a Pereto non buca lo “schermo” con la sua Bandiera per il Tasso, treccia tricolore troppo autarchica, troppo effetto ci sono-ma è come se non ci fossi-ma che ci sto a fare attaccata alla chiesa di San Giovanni. Poi l’artista non si discute, il lavoro in sé nemmeno, però il rapporto opera-contesto non va molto oltre il suo essere un’opera presa dalla facciata del liceo romano e spostata in altro contesto. Sarà per l’aver lavorato ad un site specific che si confonde con le migliaia di lucine natalizie da esterno (fateci caso, ormai è natale tutto l’anno) amate dagli italiani, ma Lorenzo Kamerlengo coi suoi neon che descrivono sinteticamente l’orografia di Pereto, appesi sulla parete di un balcone, entra meglio in sintonia col posto e con l’evento. Pur essendo un re della dissimulazione tattica al pari di Pirri, Kamerlengo dimostra uno spirito di adattamento più allineato a questa Straperetana.
Straperetana – installation view – photo Andrea Rossetti
La strada è lunga, tocca marciare tra i vicoli per rendersi conto che a Pereto – come del resto molti altre piccole realtà italiane – la presenza viva delineata dai gerani rigogliosi e dagli odori di cucina si scontra con l’assenza indicata dai numerosi cartelli “vendesi” sparsi in giro. Finché non si raggiunge la meta, piazza San Giorgio con Palazzo Iannucci, location su tre livelli che tutti i curatori un po’ amanti delle sfide vorrebbero gestire. In prima riga sul posto ci sono Matteo Fato e la sua pittura en plein air di nuova generazione, in un’imponente tela che ripropone in chiave astratto-espressionista la medesima vista godibile dalla piazza. Fato è abruzzese, di Pescara per esser precisi, e combina bene la personale rielaborazione di un segno pittorico forte, alla Munch, col poliglottismo di una visione che per esser recepita non ha bisogno di un dizionario specifico. È una delle chicche di Straperetana.
Ma quale sfida propone un piccolo palazzo di paese? Quella di essere un’abitazione abbandonata ma con un suo tessuto vitale ancora leggibile, all’interno del quale Verini dice esplicitamente «Abbiamo evitato di toccare qualsiasi cosa». Di presentarsi non come una location per come la intende chi lavora nel settore del contemporaneo, piuttosto una concatenazione di ambienti in cui sono ancora belli evidenti i segni di un passato non del tutto passato, dagli scantinati pieni di oggetti ammassati agli ambienti domestici ad uso personale, dove diventare ospiti incomodi è molto facile. In cucina ad esempio, al primo piano, tra un souvenir di Trieste ed una vetrina ancora piena di oggetti utili (che a loro volta segnano e raccontano il tempo, come uno schiacciapatate in alluminio o uno spremi agrumi in plastica), in un ambiente che però pare fatto apposta per essere occupato ancora da Favelli, stavolta con delle ibridazioni in ceramica che sono il suo cavallo di battaglia. O in camera da letto, dove il tempo è passato tra un’abat jour svirgolata ed oggettini vari, foto con Papa Wojtyla e santini disposti a creare altarini su un comò. Tra specchi che di storie ne hanno riflesse a iosa e nei quali è ancora possibile guardarsi, facendo attenzione a non inciampare nella poesia malinconica che Francesco Arena presenta qui in anteprima. L’artista pugliese ha avvolto tra copertine di agende tre blocchi di marmo «Unendo temporalità diverse» spiega Verini, producendo tre sculturine urlanti nel loro far incontrare l’oggetto di produzione umana profondamente coeso col suo tempo e votato al “deperimento”, se non altro funzionale (di un’agenda del 1978 oggi non sapremmo che farcene), ed elementi naturali destinati a sopravvivere, a scavalcare il tempo stesso. Il lavoro è di un certo peso e spessore (non solo materiali), ci sta, ma è sul confine ad un passo dall’essere ospite indesiderato/elemento spurio in una sede che fagocitandosi nei suoi spazi non perdona distrazioni.
Straperetana – installation view – photo Andrea Rossetti
È una dura legge a cui non scappano nemmeno gli artisti più cool, e se Arena può ricorrere in appello, per l’artista-cestista Roberto Fassone è condanna in via definitiva: la video installazione Ball don’t lie è un onorevole prodotto che non intavola alcun discorso con quello specifico habitat.
Sempre più in alto, verso la vetta di questa Straperetana che è Piazza Maccafani, dove nell’omonimo Palazzo si trovano quattro nomi degni del loro ruolo di artisti intervenuti a Pereto: Nicola Samorì, Thomas Braida, Michela De Mattei e Corinna Gosmaro. Ma il nostro sguardo attento si concentra sull’esterno, sulla piazza dove Elisabetta Benassi ha installato Mangiatori di Patate, una Fiat 500 Giardiniera (e non Giardinetta) di un verdone intenso, un’auto con patate (germogliate) sedute lato passeggero. Ipotizzare il dialogo che potrebbe scaturirne – “Toh, guarda questi paesani che parcheggiano la macchina in mezzo”, “Ma no questa è arte contemporanea” – è andare a parare su una situazione che non ci piace, e che si verifica quando l’arte contemporanea è un’espressione dopata da un potere empatico-mimetico utilizzato come fosse una scorciatoia, una corsia preferenziale per far arrivare macchinosamente l’azione concettuale a viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda dell’emotività. Ed a viaggiarci talmente bene, troppo bene, da superarla. E dato che siamo in paese, culla della saggezza popolare, riesumiamo l’antico adagio “chi troppo vuole nulla stringe” come pretesto per interrogarci sull’opportunità di quest’intervento, e se un certo modo di approcciare l’arte contemporanea non riempia di autoreferenzialità – più che di patate – quell’icona del passato, utilizzandola come un cavallo di Troia alla conquista di Pereto. Mentre state leggendo l’hanno già tolta di lì, essendo prevista unicamente per la giornata dell’inaugurazione. Certo però che il dubbio resta.
Andrea Rossetti