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La Venaria in green, con i progetti dell’Albertina
Progetti e iniziative
Sul concetto di rigenerazione si possono dire molte cose, soprattutto quando tira un vento di apertura e di conciliazione, in primo luogo con la natura.
Dalla collaborazione, ormai pluriennale, tra il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude e l’Accademia Albertina di Torino nasce RigenerArti. 14 progetti dell’Accademia Albertina per #LaVenariaGreen. Dal 6 al 27 di giugno, alla Reggia di Venaria si danno i frutti, bacche germinate in accademia e alimentate qui dagli stessi giardini mentre emana il profumo di una mano virtuosa, quella giovane, di una generazione che sola può parlare di ri-generazione. Alimentate dai giardini perché le opere e le installazioni (la maggior parte) sono di vegetazione recisa, proprie estensioni che il giardino reclama e che l’Accademia raccoglie rimettendole tra le braccia di una madre nell’unica forma all’altezza del gesto. All’ingresso vi verrà data una mappa, di seguito il nostro percorso.
La sensibilità dei 15 artisti e artiste coinvolti, per il tema trattato, in generale fluisce verso la Cura, ma non mancano distanze e condizione aliena, mistificazione e riti che inghiottono come voragini quando violati. L’opera di Inna Dubovyk (Ucraina, 1986), Apis, è un monumento alle api; Amor fati, di Sara Miotto (Borgoresia, 1995) e Thanchanok Belforte (Chieri, 1995), al loro lavoro: insetti portanti dell’ecosistema, ne muovono la fecondazione, antiche ninfe che immancabili trasportano vita ed essenze d’Artemide.
A scandire la cura è un tempo lento da ascoltare, sentire e vedere, di cui si ha perso il passo scavando la breccia che divide l’uomo dalla natura: al ritmo di gocce di flebo, in Natività, Alberto Parino (Torino, 1994) allestisce un futuro in cui la vita riprende i suoi spazi nelle rovine di un antropocentrismo che ha illuso e che non piò durare. In Correre fermo, Matilde Carlesi (Milano, 1999) organizza blocchi di substrato da cui l’ascolto ha fatto nascere trombe e con loro l’invito a farsi presente fino a sentire il rumore che fa un fungo che cresce. Il passato, è Zhou Han (Cina, 1996) a farlo vibrare, rievocarlo con Loro. Trasparenze, fantasmagorie delle mani invisibili insignite del compito di mediare tra l’ordine e il caos: il giardiniere della Reggia, nel nuovo mito creato da Han, regge il filo che unisce uomo e mondo.
Non solo rapporto, spesso è l’uomo a essere messo al centro dall’artista che lo oscilla tra colpa e perdono. Così accade che in Memoria di un immortale, di Linda Biella (Castelnovo, 1997), i frammenti di specchio che sostituiscono a terra un esemplare di bosso riflettano il cielo ma se ti ci affacci, insieme all’intorno, ci sei anche tu. Linh Bubbio (Vietnam, 1998) con Meta-Morpé, creatura Oltre-Forma sembra chiedere a Natura di restituire un riparo di panni disseppelliti e che questa risponda che Sì, a patto che se ne accettino le forme. E il richiamo a invertire la distanza nel ritmo in distanza fisica (e nel rispetto di quella metafisica, dai riflessi mitici e sacri) emerge esplicito dall’opera audiovisiva di Elaine Carmen Bonsangue (Australia, 1977), La filosofia dell’azione. L’opera che grida all’uomo la propria distanza ritorna e si fissa in Come le rondini, poesia di Lorenzo Gnata (Biella, 1997): immobili su aste in mezzo al canale, immagini di rondini restano ferme, immerse nell’aria piena del volo di quelle vere. Immagini, come tali bandite dal tatto e riconciliabili solo per via di immaginazione in un campo che inizia e sembra non finire con due coordinate. Le ha fissate Simone Scardino (Venaria Reale, 1995) giù in fondo ai giardini: You and I see the same è un cartello che indica da una parte le Grotte di Lascaux, dall’altra Cydonia, il cratere dal volto umano su Marte.
Tutto ritorna nella figura di Diana e nei riti introdotti come un presagio dall’olio su tela di Giuseppe Gallace (Soverato, 1993), La danza a mezz’aria, unico lavoro strettamente pittorico insieme a Impronte lignee: studio di sezione n° 8 e n° 10, di Giulia Bertolo (Torino, 1996). Il corpo e la performance riportano in vita una dea e con lei il confronto tra lo spettatore e la natura incarnata. Le due artiste calatesi al centro dell’esperienza mistico-artistica, Adina Neculai (Romania, 1995) e Sara Molinari (Voghera, 1994), presentano nella stessa idea due opere effettivamente opposte. Se La voce di Diana di Molinari attraverso le note sublimi rifà le credenze nel ben volere della dea e le speranze in una comunione, La fierezza di Diana di Adina è intimamente tangibile quanto tragicamente reale. Una Diana senz’arco giace morente, abbandonata in un letto di vegetazione scartata. Tra animali di cui è rimasta solo la forma e le frecce sparse della dea che introducono a distanza lo spettatore nella performance, il rito si innalza dalla negligenza: la potenza non di un essere immortale, ma morente; non di un altare votivo ma di una sindone; la fede che con Molinari viene dalla musica e la presenza, esplode attraverso il silenzio e l’assenza.
Non c’è niente di più vivo di una creatura che muore. Adina Neculai è una rivelazione e la sua Diana è quasi un sollievo vederla così (cinicamente conviene), perché se ritornasse lei a vedere, se fossimo noi a essere visti. Sperate che non vi guardi negli occhi. Viene il momento, Diana si alza e dalla disperazione scende dagli occhi il desiderio di un abbraccio tardivo mentre la vedete fuggire attonita tra le fronde del giardino che le è stato tolto.
Fermatevi, fermatela.