Siamo abituati a guardare alle fotografie come grandi raccoglitori di ricordi. Ci viene naturale osservare, cercare dettagli, ripensare. Laddove non abbiamo realmente un ricordo legato a quell’immagine, siamo portati, comunque, a costruirne uno tutto nostro. In sintesi, proviamo a raccontarci una storia quando guardiamo una foto; nella nostra mente esiste un album di particolari – non immediatamente riconducibili ad un momento – incasellati con fatica per anni, pronti a tornare freschi e lucidi all’occorrenza.
Possono esistere volti senza una storia? Esistono immagini non raccontate e non raccontabili? Il nuovo lavoro di Gianfranco Baruchello, che fino al 24 aprile occupa gli spazi della romana Fondazione VOLUME!, trova in questo interrogativo il proprio punto di partenza. Da sempre legato al tema dell’archivio e dello studio minuzioso del dato particolare, con “Perdita di qualità, perdita di identità” (titolo della mostra) l’artista ha riportato alla luce sedici fotografie provenienti dall’Archivio Storico di Livorno, sedici fototessere tra i 400 volti raffiguranti persone sorvegliate dalla polizia tra gli anni ’30 e gli anni ’50, sottoposte ad un progressivo deterioramento dovuto all’allagamento del luogo in cui erano state conservate, ma soprattutto dal lento incedere degli anni.
Il risultato di questo processo temporale è un asservimento fisico dell’immagine al potere incontrollabile del tempo, che diventa simile ad un oggetto metallico risucchiato da una patina di ruggine. «L’operazione iniziale di Baruchello è stata “semplice”: dare una statura e una dimensione fisica adeguata a delle foto raccolte in uno schedario, ridare presenza a queste persone che presumibilmente avevano subito un arresto, o comunque un controllo, per motivi politici», scrive il curatore Silvano Manganaro, l’azione di Baruchello è minima, laddove con questo aggettivo non si intende un’azione semplice o povera di significato. Le dimensioni capillari di un’immagine d’archivio diventano quelle di gigantografie che, strappate dalla loro dimensione storica e cronologica, dialogano con lo spazio della Fondazione VOLUME! appositamente plasmato per accoglierle. I corridoi si restringono, i vani di dimezzano, lasciando il posto a tanti piccoli cubicoli simili a celle cimiteriali, come i tanti, piccoli cassetti della nostra memoria, per l’appunto.
Come suggerito dal titolo della mostra, alla perdita di qualità corrisponde una perdita di identità: quei volti non sono più riferibili alle loro identità originarie, nel loro ingrandimento quei segni di deterioramento sembrano venature di un marmo che li incastonerà nella storia. Esiste una storia anche per questi volti, allora, ma quella che Baruchello costruisce è una storia fuori dal tempo – quello scandito da numeri, date, avvenimenti – nella quale quei frammenti, quei ruderi che John Ruskin considerava intoccabili e dunque non restaurabili, possono ancora raccontare un ricordo. Apparentemente condannati all’oblio, rivestiti di una nuova identità quei sedici volti tornano ad avere una propria memoria, diventano contemporanei allo spettatore, pur portando con sé un riferimento storico e politico alla base. Questi ritratti dall’alone fantasmatico, oscillando in una dimensione atemporale spingono lo spettatore ad una riflessione attuale sul tempo. «[…] È una mostra sulla soglia ovvero una mostra che si concentra sullo spazio intermedio che tende a diventare o apparizione o scomparsa» (Achille Bonito Oliva): non si tratta soltanto di una serie di frammenti, ma del dialogo che viene fra loro a crearsi.
Nell’ultima sala, l’artista riempie lo spazio dando forma al sonoro del discorso di Antonio Gramsci durante il congresso di Livorno del 1921. Le parole del politico, rivisitate da Baruchello, inducono a ripensare l’idea del frammento, lasciando il visitatore alla sua riflessione, ma soprattutto a un forte senso di smarrimento, già innescato dalle fotografie in mostra.
Chi sono quei frammenti? Qual è il loro passato e quali sono le loro storie, il loro vissuto? Esistono, davvero, fotografie non raccontabili? Nonostante l’apparente impossibilità a ritrovare nella mente qualcosa di quei volti che ci appartenga, ogni immagine contiene in sé il potere di essere un ricordo. Pur non appartenendo alla storia scritta sui libri, ne costruiscono una propria. Anche solo per il fatto di essere il congelamento di un momento nel passato, non possono che essere custodi di un vissuto che, fino al momento in cui non erano state mai viste prima, sembrava galleggiare nella totale obsolescenza.
Ecco che, anche se in un primo momento sarà impercettibile, ogni fotografia che osserveremo porterà con sé un ricordo.
I frammenti servono a farsi domande su tutto.