L’ALTRA METÀ DELLA BIENNALE

di - 20 Maggio 2015
Ci avete fatto caso o è stata solo una nostra impressione? Non crediamo, non fosse altro per la quantità (e la qualità) dell’offerta che vi raccontiamo. Il 2015 non è stato solo l’anno della Biennale del primo curatore africano, ma anche un’esposizione decisamente in rosa, con un’infilzata di ottime prove dentro e fuori da Giardini e Arsenale.
La nostra top list comincia con Fiona Hall, che ha battuto il “Wrong way time” (foto sopra) con la sua partecipazione all’Australia. L’artista, già a Kassel nel 2012, utilizza tutto lo spazio del padiglione per un ambiente intenso, gotico, che di concettuale ha la storia dalla sua parte, senza essere minimale. È poetica Hall,  quando trasforma le banconote da un dollaro in nidi di uccello intervenendo chirurgicamente sui numeri di serie, con la giungla di animali inquietanti, o ancora con i suoi atlanti geografici che riscrivono i fenomeni dell’immigrazione: all’indomani di Lampedusa c’è da guardare con attenzione le pagine aperte sul bacino Mediterraneo su cui sono disposti corpi stilizzati e con un grande barcone affondato, realizzati con pane. Verrebbe da dire “un lavoro semplice”, ma di fronte alla complessità del “Tempo incredibile” rimarcato da Enwezor forse è anche necessaria una chiave di lettura meno stilizzata e più vicina alla “platea dell’umanità”.
All’isola di San Giorgio Maggiore un’altra leonessa fatta e finita: Magdalena Abakanowicz, con 110 nuove sculture antropomorfe di juta: Crowd & Individual. Definirli manichini è riduttivo e non veritiero; questi corpi sono – fisicamente – una sorta di bandiera: scavati, composti solo da una facciata di pelle materica, e quasi esclusivamente privi di volto.
Sono nella penombra, tenuti a bada da una fiera illuminata sulla soglia. Un’installazione soltanto, ma della potenza che solo Abakanowicz, polacca classe 1939 e già rappresentante del Padiglione del suo Paese alla Biennale nel 1980, ha saputo mostrare nella sua lunga carriera. Crowd & Individual ci mette di fronte al grande classico della contemporaneità: non solo siamo uno, nessuno e centomila nel grande mare della comunicazione, ma soprattutto siamo tenuti a bada da un sistema che – ovunque lo si guardi con un po’ di attenzione – ci rende omologati e privi della capacità, dolorosa e pericolosa, di andare realmente controcorrente.
Altra stella non può essere che Joan Jonas, Stati Uniti. Non a caso è arrivata la menzione speciale per il suo padiglione, decisamente uno dei migliori in questa “All the world’s futures”. Jonas è rassicurante nella forma, nel senso che sono decisamente sdoganate le sue poetiche ed estetiche, ma ancora una volta è in grado di stupire con i suoi ambienti immersivi, con videoproiezioni e oggetti che ricalcano universi sciamanici e che in questo caso riflettono sull’irreversibilità che la natura sta continuando a subire sotto la mano disgraziata dell’uomo, colpevole di aver distrutto interi ecosistemi.
Sarah Lucas, Regno Unito, sarà pure – come è stato ribadito da parecchi addetti ai lavori “uguale a sé stessa”, ma tra le grandi nazioni che dominano il sistema dell’arte occidentale anche in questo caso l’Inghilterra la fa da padrone. Le sue sezioni di donne (foto di copertina) ricalcano un universo in cui il femminile è feticcio e gli sgabelli, il grande frigo a pozzo, basi su cui questi pezzi di corpo sono adagiati in posizioni da amplesso, sono a loro volta le icone su cui il maschile può modellare le sue inclinazioni. Irriverente, Lucas, che pare portare avanti quella bandiera di “genere” nata non solo con la Young British Art ma anche con gli scatti degli anni ’90 e dei primi ’00 di Nan Goldin o Wolgang Tillmans, che hanno fatto del desiderio, specialmente borderline, di interni sfatti la loro cifra stilistica per raccontare il presente.
Altra donna che ci racconta del nostro tempo, e come sempre in modo molto obliquo, con ironia e una sorta di crudezza è Katarzyna Kozyra alla galleria Caterina Tognon. L’artista polacca ha effettuato vari viaggi in Israele per conoscere e documentate con un video in cui lei fa la parte dell’intervistatrice la “sindrome da Messia”, fenomeno ormai studiato anche in psichiatria, che riversa a Gerusalemme uomini, donne, bianchi, neri, provenienti dalle più disparate parti del mondo, che si credono Dio e tentano di fare proseliti. Kozyra rimane fredda davanti a loro, non c’è mai né complicità né compiacimento. È una cronista, anomala come è sempre il suo lavoro e lei stessa, che mette in scena questa ossessione contemporanea. Un’altra risposta all’indagine sui nostri tempi voluta da Enwezor.
E le italiane? Possiamo accontentarvi con un paio di nomi. Elisabetta Benassi al padiglione belga, con un’installazione poetica e asciutta, Monica Bonvicini, più tedesca che italiana, con la sua cupa e aggrovigliata installazione all’Arsenale, nella mostra di Enwezor e poi il miglior lavoro che spicca nel buio del Padiglione Italia, che non è solo fisico ma racconta senza veline lo stato del Paese: quello di Marzia Migliora. Un’installazione luminosa, dove le pannocchie nella loro povertà diventano tutte d’oro, nutrimento, oltre che rêverie dell’infanzia dell’artista.
Tralasciamo invece l’irrisolto tema della memoria di “Codice Italia”, specialmente perché in questo caso la declinazione appare non tanto come un radicamento che permette di guardare al futuro con uno slancio più consapevole, ma passpartout per continuare ad osservare (compiaciuti?) il latte versato, senza trovare il coraggio di rovesciare o aggiungere qualche nuovo elemento.

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