Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
07
giugno 2015
L’altra Venezia in tre sedi fuori dal coro
Progetti e iniziative
Pochi artisti italiani nella Biennale? In compenso ecco tre progetti, Shrine for girls, Sepphoris e Casa Scatturin, realizzati da curatori made in Italy
A Venezia tre curatori italiani, Raffaele Gavarro, Pierpaolo Pancotto e Ludovico Pratesi, hanno presentato delle piccole e raffinate mostre come eventi collaterali della mastodontica Biennale 2015.
Dietro piazza San Marco, in un campo dove il clamore che stordisce la città lagunare nei giorni di Biennale arriva attutito, c’è la piccola e preziosa chiesa settecentesca dedicata a San Gallo, al suo interno i tre altari sono ingombri di un accumulo di stoffe che formano tre piramidi ognuna con una sua particolare cromia (foto di copertina). L’artista americana Patricia Cronin ha utilizzato questo luogo di preghiera e di raccoglimento per mettere in scena in modo poetico, ma non per questo poco assertivo, il suo doloroso omaggio a tutte quelle fanciulle che hanno subito sulla loro pelle la brutalità della violenza maschile.
“Shrine for girls” (Tempio per le Ragazze), curata da Ludovico Pratesi, è il titolo di quest’installazione apparentemente lieve ma che colpisce come un pugno nello stomaco. Sull’altare centrale spicca il cumulo di sari dai colori accesi in ricordo delle centinaia di ragazze che ogni anno vengono impunemente violentate in India. Sull’altare entrando a destra i tessuti, principalmente beige, bianco e grigio, sono pezzi delle divise che venivano indossate dalle bambine e dalle ragazze allevate nei conventi delle Sisters Magdalens. Essere chiamate Magdalene’ s girl fino a pochi anni fa, tra Irlanda e Inghilterra, non era certo un complimento. Il termine indicava le “cattive ragazze”, quelle che avevano dirottato dalla retta via a causa di peccati quasi sempre legati al sesso: figli nati fuori dal matrimonio, stupri spesso dentro le mura domestiche, ma anche un’ eccessiva avvenenza fisica, indizio sicuro di “pericoli morali” in vista. Abbastanza per bollarle a vita, farle cacciar di casa, e farle chiudere in un “Magdalene”, nella realtà dei lager: lavanderie gestiti da suore cattoliche che sfruttavano il lavoro non retribuito delle ragazze a loro affidate.
«A fine anni Sessanta in Gran Bretagna ne esistevano ancora una cinquantina, circa la metà nel sud Irlanda», racconta Peter Mullan regista inglese che nel 2002 ha girato un famoso film su questo scabroso argomento . «Dentro quelle mura sono passate circa 30mila donne, molte vi sono rimaste fino alla morte. Trattate come prigioniere, senza poter mai uscire, seviziate e umiliate nel corpo e nell’ anima. Mai pagate un cent per un lavoro massacrante, fonte invece di buoni incassi per le religiose. L’ultima “lavanderia Magdalene” è stata chiusa nel 1996. A determinarne la fine, più che un’illuminazione dall’ alto è stata l’invenzione e la diffusione della lavatrice, che ha vanificato quel lavoro artigianale».
Il terzo altare dalla cromia più eterogenea è invaso da una pila disordinata di hijabs che rappresentano le 276 studentesse rapite dal gruppo terroristico Boko Haram in Nigeria. Un lavoro di denuncia e legato a temi sociali come quasi tutta la produzione della Cronin e che ben si inserisce nelle line guida dettate da Ewenzor per questa sua Biennale dai contenuti fortemente politici.
Al Molino Stucky, che per la prima volta è utilizzato come luogo espositivo, Raffaele Gavarro presenta Sepphoris il lavoro fotografico di Alessandro Valeri (foto in alto) sull’orfanatrofio di Tsippori, vicino a Nazareth in Israele. Questi scatti in bianco e nero, su cui l’artista è intervenuto con dei segni pittorici, sono allestiti come dei grandi stendardi che sembrano ascendere verso il tetto del Molino in una sorta di spirale molto scenografica. L’orfanatrofio, situato in un kibbutz ebraico, in un
territorio prevalentemente abitato da arabi musulmani, è gestito da un
piccolo gruppo di suore cattoliche, decisamente illuminate, che non solo accoglie i bambini di tutte le etnie e di tutte le fedi, ma soprattutto senza praticare nessuna opera di evangelizzazione.
Valeri nelle sue foto che immortalano i particolari del luogo e della vita dei bambini ci mostra la semplicità del bene e la straordinarietà di questo microcosmo in cui sembrano risolversi tutte le contraddizioni presenti
in quella terra lacerata da conflitti religiosi in realtà irrisolvibili.
In una piccola calle dietro Palazzo Fortuny, in un edificio del XVI secolo c’è l’appartamento-studio che fu dell’Avvocato Luigi Scatturin, famoso a Venezia come “L’Avvocato comunista” perché nella sua lunga e fortunata carriera si è sempre schierato dalla parte dei più deboli difendendo gli operai del polo petrolchimico di Marghera e ancor prima il celebre architetto Carlo Scarpa, un genio privo di laurea, che non poteva firmare i suoi progetti.
Pier Paolo Pancotto è vissuto in questa casa, progettata alla metà degli anni ’50 sia nella struttura che negli arredi proprio da Carlo Scarpa, con un piccolo gruppo di artisti che si sono alternati nell’arco di un mese lasciando un’opera site specific realizzata in armonia con lo spirito non solo della casa ma anche del personaggio che l’ha abitata per tanti anni e la cui presenza fra quelle mura è ancora viva. “Signori prego si accomodino” è il titolo della mostra, durata purtroppo una sola settimana (2-8 maggio) che presentava, in un percorso sospeso nel tempo, i lavori di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972) Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979), Hope Atherton (Warrenton, 1974), Patrizio Di Massimo (Jesi, 1983) Claire Fontaine (Paris, 2004), Nicola Martini (Firenze, 1984), Lili Reynaud Dewar (La Rochelle, 1975), Emanuel Röhss (Gothenburg, 1985), Arcangelo Sassolino (Vicenza, 1967), Morgane Tschiember (Brest, 1976), Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976). Tutti gli interventi, minimali e leggeri, si sono inseriti perfettamente nella struttura abitativa al punto da sembrare parte integrante di quel luogo rimasto miracolosamente intatto dagli anni cinquanta. Minimi scarti percettivi ma decisamente riusciti come i faldoni della causa relative a Marghera che Arcangelo Sassolino ha inserito nella luce di una porta spezzandone l’altezza, o il video di Yuri Ancarani presentato all’interno di un televisore Brionvega dell’epoca, o il neon di Claire Fontaine sulla parete del salotto o ancora il ritratto ad olio di Patrizio di Massimo che dialogava perfettamente con le preesistenti opere a muro.
questo sarebbe uno speciale sul Padiglione Roma?! Di Italiani che hanno curato progetti in questa biennale ne dimenticate almeno 5-6. Con mostre spesso più rilevanti, compresi padiglioni nazionali.
Gentile Anna, sappiamo bene che altri curatori italiani hanno fatto mostre importanti a Venezia, tant’è che ne abbiamo anche parlato (con i pezzi su Merz curato da Bartolomeo Pietromarchi, e le mostre alla Bevilacqua La Masa e Querini Stampalia, rispettivamente a cura di Vettese e Bertola) ed altri hanno curato padiglioni stranieri, come Eugenio Viola e Alfredo Cramerotti.
Come detto esplicitamente nell’articolo, volevamo segnalare tre progetti minori, in luoghi meno frequentati, che a nostro giudizio sono di qualità.
Che poi i curatori siano tutti e tre romani, beh, ci possiamo fare poco. Magari la prossima volta capiterà che siano torinesi o palermitani.
Saluti e grazie dell’attenzione