L’11 novembre è arrivato nelle sale di Palazzo Sciarra l’avvincente “film” di Norman Rockwell. Girato in un bianco e nero molto sporco interrotto da una sequenza di 300 illustrazioni a colori più accesi, sempre firmata USA. Non si tratta di un regista vero e proprio né dell’ultima uscita di Hollywood, ma quello che Rockwell fa in bilico tra cinema, giornalismo e illustrazione, è catturare con la sua personale “cinepresa” la scena politica americana degli anni tra Lincoln e Kennedy. Insieme alla fotografia delle lotte razziali e politiche non dimentica però anche l’ America dei fumetti, bonaria e piaciona di Santa Klaus.
In mostra a Roma, le opere si presentano come flash-back temporali, dal primo decennio del XX secolo al boom economico dei favolosi Sixities, con il lancio della Ford, le decappottabili e il primo piede sulla luna.
Intrappolati in fotogrammi filmici, sono i volti sorridenti di bambini ed eroi comuni, chat e gossip in formato comics, indiani, pirati, minatori (Mine America’s coal) e soldati. In breve, è tutta la middle class, i workers e le facce da copertina che hanno fatto l’America – “Senza rifletterci troppo, quello che facevo era mostrare a chi forse non li conosceva certi aspetti dell’America che avevo sotto gli occhi”, commenta Rockwell – che va in scena alla Fondazione Roma Museo fino all’8 febbraio.
La vasta retrospettiva, “American Chronicles: The art of Norman Rockwell”, (l’ultima in Italia risale al 1990) esplora però anche l’altra faccia dell’America, quella dell’apartheid, del grido di libertà e dei paradossi di una terra che madre di ogni self made man accoglie nella sua galleria di razze, colori, religioni, lingue, tutto il mondo contemporaneo di allora, e di oggi. E si va, dalle prime produzioni No Swimming, del 1921 all’Albero genealogico del 59, dall’ultimo post dedicato a JFK appena scomparso, all’opera conclusiva Murder in Mississipi (1965) narrando tra tocchi di leggerezza e colpi d’arma da fuoco, la storia del sogno (infranto) americano.
Grazie al Norman Rockwell Museum, in collaborazione con la Soprintendenza SPSAE e Polo Museale della Città di Roma e la Fondazione NY, i disegni, celebri in tutto il mondo, del Saturday Evening Post (con cui Norman inizia a pubblicare a soli 22 anni) sono esposti a cura di Danilo Eccher e Stephanie Plunkett, suddivisi in sei sezioni insieme a una serie di dipinti dell’artista, motivo dell’eccezionalità della mostra.
E infatti, accanto al mondo patinato delle illustrazioni, piatte e apparentemente senza spessore dei post Boy Making Football Tackle, the Flirts o Ragazza alla guida di una decappottabile, istantanea lucida della vita americana, ci sono i dipinti a olio. Il ritratto di Abraham Lincoln ne è un esempio, o la simpatica Girl With String, prototipo, forse, di quella che sarà una desperate housewife da pubblicità nel suo vestitino a quadri bianco e verde con tanto di fiocco.
L’inquadratura di Rockwell finisce però anche su alcuni fermo-immagine da film western come per la locandina del cow-boy Slim Pickens. E non è un caso. Nel 1965 con la moglie Molly va a Hollywood a far posare alcuni attori del cast di Stagecoach. Il ritratto di Bing Crosby, attore e cantante famoso, ritorna al contrario nei ricordi delle atmosfere natalizie.
Fonte d’ispirazione dunque sono non solo i racconti che il padre gli legge nelle sere d’infanzia: A Christmas Carol, le peripezie di Oliver Twist, e gli altri romanzi di Dickens, che esploderanno in un’immaginazione prolifica e gioiosa ma tutto quello che passa sotto la lente del giovane Norman. La mostra, infatti, si presenta come un documentario a volte leggero, altre inquietante, di una terra che in parte non è cambiata, raccontata allora da bollettini di guerra, oggi da altre guerre di conquista, confusion mass, trash tv, azioni politically correct e uncorrect. Sogni e drammi che la storia d’America attraversa da sempre. Fino ad arrivare alla tragedia dell’11 settembre e sperare dopo con Obama di vedere finalmente alla Casa Bianca un’opera di Rockwell:The Problem We All Live With. Una ragazzina nera è scortata in strada per il suo primo giorno di scuola. Tra muri imbrattati di parolacce e pomodori, e la sigla KKK (Ku Klux Kan associazione razzista di stampo terroristico di bianchi contro neri).
Peccato manchi solo l’opera The Connoisseur! Sarebbe servita da volano al prossimo appuntamento con l’arte in America, per la regia di Jackson Pollock.