L’America | e l’ossessione del cibo

di - 30 Agosto 2014
Una fetta di torta guardando Freedom Tower dal Pier 45 o magari passeggiando per il Whitney Museum, dove è in corso Jeff Koons: A Retrospective.
Anche Koons, tra gli artisti più quotati al mondo, si è lasciato tentare da un soggetto così invitante come la torta: il dipinto ad olio Cake è del 1997-98. Del resto anche lui affonda le radici nella cultura americana per eccellenza – quella pop – di cui ha esasperato gli aspetti del consumismo, della pubblicità, del kitsch.
Dagli anni ’60 in poi molti grandi artisti americani hanno affrontato con serietà ed ironia il tema del food, soggetto della vita quotidiana che si presta ad una gamma di riflessioni più profonde.
Naturalmente conosciamo le grandi sculture di Claes Oldenburg: non solo hot dog, hamburger, e gelati capovolti. Meno noti, forse, i suoi disegni raccolti nel prezioso volume Drawings and Prints (Chelsea House Publisher, 1969). Disegnare è un esercizio spontaneo per Oldenburg che ha sempre tenuto un notebook a portata di mano su cui tradurre nell’immediato le proprie riflessioni, magari durante una conversazione, fermandosi durante una passeggiata o riflettendo nell’intimità del suo studio. Disegni che appartengono al mondo visibile, non fantasie cariche di riferimenti simbolici o surreali, che possono diventano bozzetti preparatori come Cake Wedge (1962), Study of a Swedish Bread-Knäckebröd for a multiple in cast iron (1966) o anche Flying Pizza (1964) in cui è evidente la curiosità dell’artista nell’esplorare forma, movimento, percezione.

Quanto a Andy Warhol, prima ancora dei celebri barattoli della Campbell’s soup e della copertina con la banana realizzata per il primo album dei Velvet Underground & Nico assurti ad icona, ha pubblicato con Suzie Frankfurt il ricettario Wild Raspberries (l’edizione originale è del 1959) che raccoglie ricette che non sono commestibili, ma innegabilmente originali. La Frankfurt è l’autrice di “speciali prelibatezze” come la “Torte a la Dobosch”, il “Gefüllte of Fighting Fish” e l’”A+P Surprise” (che prevede l’utilizzo di un pan di spagna vecchio di due giorni), illustrate con altrettanta ironia da Andy Warhol e trascritte a mano da sua madre Julia Warhola. L’artista è protagonista, poi, del film Andy Warhol Eating an Hamburger (1981), diretto da Jørgen Leth e prodotto da Ole John in cui per la durata di 4 minuti segue lo stesso rituale: apre la busta di una nota catena di fast food americana, tira fuori il suo hamburger, si pulisce le mani, lo intinge nella salsa ketchup, lo addenta… il tutto in totale silenzio. Alla fine guarda dritto nella videocamera e afferma: «My name is Andy Warhol and I just finished eating an hamburger».

Strettamente connesso con il territorio il lavoro di Ed (Edward) Ruscha, artista della West Coast che coniuga Pop Art, Astrattismo, Realismo, Minimalismo e Arte Concettuale. Ancora una volta il disegno è il medium per affrontare con ironia le contraddizioni della vita moderna: nei piccoli disegni su carta pubblicati in Guacamole Airlines and other drawings, (Harry N. Abrams, 1980), datati soprattutto tra il ’62 e il ’79, Ruscha utilizza la scrittura associata alla polvere da sparo, alle medicine ma anche agli spinaci, al succo di carota, alla cipolla. Quanto alla lattuga, sconfina inevitabilmente tra gioco di parola e proverbio, il suo disegno We are This and we’re That. Aren’t We? (1977).
Altro ricettario sui generis è quello firmato da John Cage e Lois Long: Mud Book. How to make pies and cakes (Harry N. Abrams, 1988). Per fare una torta di fango servono terra, acqua, sole e una teglia. Per una torta di compleanno bisogna aggiungere anche dei Denti di Leone (conosciuti anche come Tarassaco), candeline e l’immancabile desiderio. Ma attenzione, gli autori mettono in guardia il lettore: “Le torte di fango sono da fare e da guardare, non da mangiare”.

Se, poi, Bruce Nauman esplora i limiti funzionali del linguaggio utilizzando la formula del paradosso per contestare il valore stesso delle parole. Nella serie Eating my words (parte di Eleven Color Photographs 1966-67/70) è seduto a tavola e spalma la marmellata sulle lettere che compongono la parola “word”, Yoko Ono – nella primavera ‘64 –  scrive il Tunafish Sandwich Piece: «Immagina mille soli nel cielo nello stesso momento. Lascia che brillino per un’ora. Poi, falli sciogliere gradualmente nel cielo. Prepara un panino al tonno e mangialo».
Judy Chicago, invece, apparecchia una grande tavola con il suo The Dinner Party (1974-79). L’installazione, che dal 2007 è esposta permanentemente presso l’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art del Brooklyn Museum di New York, è densa di significati metaforici. Intanto non c’è la presenza del cibo, piuttosto ricorrendo al modo di dire “place at the table”, Chicago formalizza la presenza delle artiste donne all’interno della storia. Nei tre tavoli del banchetto ci sono 13 coperti, come nell’Ultima Cena, ma diversamente da quella, in questa ci sono solo donne, incluse Virginia Woolf e Georgia O’Keeffee.

Diversamente, il cibo a cui allude Gordon Matta-Clark non ha nulla di metaforico. Tra il ’71 e il ’73 l’artista, insieme a Carol Godden e Tina Girouard, ha aperto nel quartiere newyorkese di SoHo (al 127 di Prince Street), il ristorante Food, punto di riferimento per artisti e musicisti, tra cui Philip Glass. Il menu spaziava da Duck Gumbo a granchi bolliti e, per concludere, la Syrian Coffee Cake. In Laurie Anderson, Trisha Brown, Gordon Matta-Clark : Pioneers of the Downtown Scene, New York 1970s (Prestel, 2011), ma anche nella pubblicazione a forma di menu Gordon Matta-Clark: Food (Paperback, 2001) sono raccolte anche le foto dell’artista mentre gira il film Food (1971), insieme ad alcuni schizzi di Food’s Kitchen.

Con lo sguardo ammiccante e il sorriso sornione anche Georgia O’Keeffee sembra a suo agio nei panni di cuoca nella fotografia scattata da Todd Webb nel 1962: con il grembiule e una mano sul fianco, gira lo stufato nella pentola, nella cucina di Ghost Ranch, nei dintorni di Santa Fe. È così che appare nella copertina di A Painter’s kitchen. Recipes from the kitchen of Georgia O’Keeffee di Margaret Wood (ripubblicato nel 2009 dal Museum of New Mexico). Sul candore dei piatti di porcellana, le pietanze certamente dovevano sembrare ancora più colorate. Ma anche in cucina – come per tutto il resto – vigeva un’unica regola, la semplicità. Vivendo in New Mexico l’artista aveva imparato ad amare una cucina fondamentalmente sobria e tendenzialmente vegetariana in cui piatti tradizionali come le enchiladas di formaggio e salsa di peperoncini rossi o i biscochitos si alternavano a ricette come la quiche di spinaci, la minestra di avocado, il riso integrale con lo zenzero, l’insalata di cavolo con mele e noci… e l’immancabile zabaione, uno dei suoi dolci preferiti.

A proposito di dolci – rituffandoci nel contemporaneo – il giovane artista Oscar Murillo, in occasione del suo debutto newyorkese (la personale A Mercantile Novel che si è chiusa nel giugno 2014) ha trasformato la galleria David Zwirner in una fabbrica di cioccolato. Il “nuovo Basquiat” come è definito l’artista colombiano affronta temi legati all’emigrazione, alla globalizzazione e anche allo sfruttamento riproducendo la fabbrica di dolciumi (La Colombina) che nella sua città natale, La Paila, ha dato lavoro a molte generazioni della sua famiglia, inclusi i suoi genitori prima che emigrassero nel Regno Unito. Durante la mostra 13 lavoratori colombiani hanno prodotto ogni giorni circa 7000 marshmallows (conosciuti in italiano anche come toffolette o cotone dolce) ricoperti di cioccolata e impacchettati nelle confezioni disegnate da Murillo. Un’”opera d’arte” distribuita gratuitamente e particolarmente gradita dal pubblico.

Infine, nella grande e antica fabbrica di zucchero Domino Sugar Company di Williamsburg, Brooklyn che sarà presto demolita per costruire appartamenti di lusso, Kara E. Walker ha realizzato A Subtlety or the marvelous sugar baby. Un tributo alla storia invisibile degli “sugar boys”, come venivano chiamati i ragazzini neri che in condizioni di schiavitù portavano lo zucchero raffinato nelle “cucine del Nuovo Mondo”. In quella che è stata la mostra più fotografata e amata dai newyorkesi, prima ancora dello sguardo era l’odorato ad essere allertato. La melassa delle sculture a grandezza naturale dei ragazzini al lavoro si è sciolta lentamente emanando il tipico odore dolciastro. Lo sguardo serio di un’infanzia troppo breve entra nella storia, come del resto la grande – immensa – sfinge dal volto tipico di donna di colore, figura stereotipata della cuoca negra delle grandi piantagioni del Sud (che sopravvive ancora oggi nella pubblicità della Aunt Jemima Pancakes), di cui l’artista ribalta il punto di vista. Modellate nello zucchero candido anche le grandi labbra della vagina: una riappropriazione del potere da parte della donna, ma anche un’allusione alla dolcezza del sesso.

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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