La musica dei Baustelle o la si ama o la si odia. Sarà questa capacità di dividere in maniera così netta il pubblico, sarà la loro imprevedibilità, ma sta di fatto che la band di Montepulciano rappresenta un fatto del tutto singolare nel panorama dell’odierna musica italiana e al contempo uno di quei rari casi in cui dinamiche di produzione e composizione sembrano avere sullo sfondo un pensiero più attinente alle arti contemporanee che alla musica stessa.
Non sarebbe difficile affiancare il nome dei Baustelle a quello di Maurizio Cattelan o Damien Hirst, o, ancora, andando a ritroso, Andy Warhol, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Marcel Duchamp. Per una certa attitudine postmoderna a macinare e rielaborare materiali provenienti da contesti culturali differenti, per il continuo citazionismo, il cut-up di frammenti di mondo, di letteratura e reale, certo; ma anche e soprattutto per l’indiscutibile capacità di aver dato vita ad un immaginario potente, che al pari di opere come Him (il celebre Hitler inginocchiato di Cattelan), Charlie Don’t Surf (altra opera di Cattelan dalla quale i Buastelle traggono una delle loro più celebri hit) o For love of God (di Damien Hirst) si manifesta come una lettura singolare e personalissima del mondo tutto. Come un taglio sulla tela, come un orinatoio all’interno di un museo, sin dalle origini della loro carriera i Baustelle hanno mostrato cosa la musica pop potesse essere in Italia e di cosa la musica pop potesse parlare.
Così, con buona pace dei suoi detrattori, quando quattro anni fa, la band di Montepulciano pubblicava Fantasma, concept album intorno ai temi della morte e del tempo, era già chiaro che si preparava ad entrare definitivamente nel novero dei grandi classici del cantautorato italiano. Non solo, con il suo sesto disco aggiungeva una nuova pagina a questo ampio percorso artistico che potremmo definire come una tesi in forma di canzone sull’esigenza e i significati del “pop” nel panorama italiano contemporaneo.
Sulla capacità di Francesco Bianconi – testa e fine penna della band insieme a Rachele Bastreghi e Claudio Brasini – di raccontare il presente molto è stato già detto. È ormai assodato che l’intera discografia della band – a partire da Sussidiario Illustrato Della Giovinezza, per passare a La Moda del Lento, La Malavita, Amen, I Mistici dell’Occidente – rappresenti la sintesi migliore degli ultimi vent’anni della storia italiana, con i suoi retroscena politici, le sue mode, le sue perdite, le sue glorie, le sue produzioni culturali, le sue giovinezze conquistate, rubate, esiliate e sciupate. Qualcosa che sposta il brand “Baustelle” ancora una volta fuori dall’ambito meramente musicale lasciandolo approdare nel terreno meno definito di un immaginario collettivo diffuso, che, tra suggestioni letterarie e cinema, nel nome della band si concentra e concretizza, come una galassia fotografata da uno spazio-tempo lontanissimo.
Questa effimera “eternità” dei Baustelle, questa distanza siderale (Qui disco volante, non temeteci, sul pianeta terra cerchiamo un cuore – L in Amen), sta tutta nella capacità di fuggire fotografie ravvicinate e in velocità del presente, quasi che la scrittura di Bianconi si nutra costantemente della consapevolezza di un necessario salto nel passato – quel luogo in cui memoria e immaginario si sedimentano – per guardare l’oggi – quel luogo in cui memoria e immaginario sono definitivamente persi.
Il rumore di questa perdita potrebbe essere, per i Baustelle, una buona definizione del “pop”: l’esplosione del presente che si scontra con l’immaginario del suo passato più prossimo, tutti gli ieri che soccombono all’oggi, una bolla di sapone che si sfalda nell’aria. “Pop” come il suono di un’immagine che entra in un’altra immagine e che richiama, inevitabilmente, quanto di più lancinante ed eterno ci sia nella vita: la sua inconsistenza. Così l’adolescenza, età che attraversa tematicamente tutta la produzione musicale del gruppo, non è altro che la perfetta rappresentazione di questo rapporto: una condizione eterna, quella della storia – della provincia italiana – che fa i conti con se stessa e le sue rovine, con la sua indecifrabilità (Ed i cantanti dalle radio cantano, ed ogni anno foglie morte nascono, comete nuove cadono per un errore cosmico, e l’universo è inutile – A vita bassa in La Malavita).
In questo senso L’Amore e la Violenza, ultimo album del gruppo, pubblicato il 13 Gennaio e distribuito da Warner Music, rappresenta la cristallizzazione di cosa il pop sia per i Baustelle e di cosa i Baustelle siano per il pop italiano: un “soulèvement”. «Sollevarsi è spaccare un certo presente anche a colpi di martello, come vorranno fare Friedrich Nietzsche o Antonin Artaud, e sollevare le braccia verso il futuro che si apre. È un segno di speranza e di resistenza. È un gesto e un’emozione», scrive George Didi-Huberman.
Questo segno abita la copertina de L’amore e la violenza, ispirata ad un fotogramma del film If… (1968), diretto da Linsay Anderson, che non a caso si chiude con una violentissima “rivolta”, una sparatoria dai tetti della scuola da parte di un gruppo di studenti contro loro coetanei e professori (e un certo leitmotiv sessantottino attraversa silenziosamente l’intero album della band). Questo gesto vive nella patinatura vintage e spudoratamente pop del disco («pop come una bestemmia» lo ha definito lo stesso Bianconi).
Se in Fantasma Mahler, Ligeti, Stravinskij incontravano le colonne sonore di Morricone, fotogrammi dal cinema di Dario Argento e Sergio Leone, i versi di Pasolini, Montale, De André, le parole di Gadda, Dickens, Edgar Allan Poe, la voce di Leo Ferré, L’amore e la Violenza incunea, nelle dieci tracce che lo compongono, riferimenti alla discomusic anni ‘70 e ‘80, dagli Orchestral Manoeuvres in the Dark a Giorgio Moroder, alla canzone italiana, da Battiato a De Gregori, alla canzone sanremese passando per Amanda Lear, Viola Valentino, Diana Est, Ricchi e Poveri, unendo “Sandokan” ai Duft Punk e facendo propri contemporaneamente David Foster Wallace e De Sade, D’Annunzio e Jacques Prévert e ancora Leo Ferrè. Un disco capace di suonare “gaiamente” kitsch, di tuffarsi audacemente nel trash, per riemergere come un album doloroso – forse l’album più doloroso dei Baustelle – e al contempo luminoso come una falena, la stessa che in Lepidoptera si attacca follemente alla vita (Io non sono stato mai così schiavo del mondo e attaccato alla vita, una falena di luce drogata – in L’Amore e la Violenza).
La scrittura usualmente narrativa di Bianconi si sfalda nella giustapposizione di frammenti in cui l’idiozia di questi anni (in rima ne Il vangelo di Giovanni) emerge spietata nella fine di un amore sovrapposto all’icona di Amanda Lear (Amanda Lear), nella crisi di un’Europa alla sua ultima canzone (Eurofestival) in quella di Elisabetta anche lei tremante come una foglia tra droghe e social network (Betty), tra turisti giapponesi al giubileo, lettere del Papa sulla fedeltà dei cani, attentati, bombe, esplosioni, jihadisti, scambisti, separatisti, etero e gay. A fare da contropartita a questa decadenza è l’autoironia dei Baustelle, sempre tagliente e capace di tramutarsi in una forma di leggerezza, in “canzonette” di speranza, in una gradevole resa all’essere delle cose (Torneremo a fare l’amore vedrai, a guardarci dritto negli occhi, ci si abitua a tutto, alle bombe, alle esplosioni, alla storia, al calendario. Non aver paura, non piangere mai…– L’era dell’Acquario in L’Amore e La Violenza). Ecco la vita che avanza, nonostante i padri, nonostante tutto, come nelle strofe, cantate su citazione musicale de La donna cannone e dedicate alla figlia dello stesso Bianconi, in Ragazzina, uno dei brani più struggenti del disco. Sollevarsi lievemente, vivere a perdere. Perché «la vita è tragica, però è fantastica, essendo inutile, è solo immagine, è tutta estetica», cantano i Baustelle per far cantare anche noi. Ed è tutto qui. Ed è molto pop.
Matteo Antonaci