L’animale che vestirei

di - 18 Febbraio 2019
“Animalia Fashion”, mostra a Palazzo Pitti (fino al 5 maggio 2019), indaga i rapporti che la moda intrattiene con il mondo animale: le ispirazioni che trae da esso, le meraviglie della natura che i designer cercano di riprodurre nei loro abiti e l’incessante sguardo che noi abbiamo su di essi, “l’altra specie” per eccellenza.
Patricia Lurati, storica dell’arte e curatrice della mostra, si sposta così dal mondo degli artisti a quello degli stilisti, per raccontare e mostrare come anche la moda possa essere «scimmia della natura». La premessa è quindi di carattere emulativo: i vestiti nell’allestimento rispondono sempre a una determinata fattezza o carattere di animali – dai ragni ai cigni, dai serpenti ai coralli marini – in una vera e propria galleria zoologica della moda.
L’arco di tempo a cui appartengono gli abiti è di circa un ventennio: dal 2000 al 2018 Patricia Lurati ha guardato le sfilate e le collezioni di brand come Dior, Chanel, Valentino, Maison Margiela, cercando di mappare il fil rouge che collega l’ispirazione dei designer al regno animale.
Il visitatore si trova così ad attraversare le stanze della Galleria del Costume e della Moda di Palazzo Pitti in un’illuminazione soffusa, bassissima. Gli abiti sembrano emergere da buio come delle apparizioni fantasmatiche. Ogni stanza è dedicata a un animale specifico, rappresentato da una miniatura tratta da un bestiario medievale, da un quadro, oppure da un esemplare impagliato proveniente dal Museo di Storia Naturale.
Animalia Fashion
Nella stanza dedicata al cigno, ad esempio, sono esposti un grande abito da sposa di Chanel by Karl Lagerfeld (s/s 2018), due minidress, uno Dolce e Gabbana (f/w 2005-06), l’altro Saint Laurent by Anthony Vaccarello (s/s 2018) e un abito da sera Ralph & Russo (f/w 2017-18). Gli abiti, tutti bianchi e schiumosi di piume, dialogano in silenzio con il piumaggio del cigno reale impagliato, in una teca lì accanto. Poco più in là, un paio di scarpe RED Valentino riproducono la fisionomia dell’animale (pre-fall 2014), mostrando nella loro singolare bellezza come le forme del mondo possano essere riutilizzate dalla moda. La proverbiale bellezza e eleganza del cigno divengono così indossabili: il visitatore non deve sforzarsi troppo a immaginare questi vestiti, una volta sul corpo, capaci di sbattere le ali ad ogni passo.
Così assonanze poetiche tra animali e capi guidano il visitatore tra le stanze. Iris Van Harpen ricrea gli aculei del riccio per la collezione s/s 2013 in un abito nero che si allunga fino a terra in una gonna di brillanti e grandi piume acuminate. Le paillettes brillanti del vestito da sera di Cavalli (f/w 2006-07) sono le scaglie di un pesce dorato. Piccole teche ai margini delle stanze contengono poi gli accessori: una piccola clutch di Chanel (s/s 2012) riproduce perfettamente la forma perlacea di una conchiglia; un paio di sandali di Sergio Rossi (s/s 2014) sembrano portati via direttamente dalla barriera corallina; una mini bag di Prada in collaborazione con Damien Hirst (2013) è una piccola collezione portatile di coleotteri.
La vera forza della mostra si gioca tutta nella meraviglia di fronte all’immaginazione e all’inventiva dei designer, che permette loro di prendere spunto dai serpenti e dai pappagalli per rivestire il corpo umano. Si potrebbe dire che “Animalia Fashion” sia una mostra che parla soprattutto della capacità della moda di appropriarsi di ciò che vede e di trasformarlo in oggetto del desiderio.
Animalia Fashion
Nel corso delle stanze, il cartellino del curatore fornisce informazioni minime, sul designer e sull’anno di creazione del vestito. Non vi è alcuna didascalia, nessuna spiegazione altra. La logica della mostra è didascalica di per sé: l’osservatore coglie la metafora nell’accostamento dell’animale ai vestiti. Le miniature e i quadri a volte risultano ripetitivi, addirittura pleonastici. Il visitatore intuirebbe l’ascendente animalesco semplicemente osservando la foggia delle gonne, le fantasia dei tessuti, lo studio delle cuciture. Forse un gioco  interattivo, fondato su domande e non su risposte già date, darebbe alla visita un sapore meno piatto, più inventivo.
Perché, da questo punto di vista, la mostra si potrebbe considerare un gioco a rilancio su quello che invece non è stato allestito: offre la possibilità (questo è soprattutto un consiglio per i visitatori) di estendere la mostra nella mente, di creare nuovi e altri collegamenti. “Animalia Fashion” non può chiaramente esaurirsi nelle sue stanze e nell’arco di anni che ha indagato: tentare di tracciare un vero e proprio resoconto del rapporto della moda con il mondo animale sarebbe stato impossibile. La moda ha da sempre preso spunto dagli animali per le sue creazioni: essi sono il nostro contraltare, meraviglia della natura e nostro riflesso.
Animalia Fashion
D’altra parte bisogna tener conto di quanto la mostra, in questo momento, si inserisca in un discorso più ampio, che coinvolge tutti gli ambiti, dalle politiche ecologiche alla letteratura. Le nuove tecnologie, i progressi a cui è giunto l’uomo, le problematiche legate al clima e al suo cambiamento costringono a un bilancio sul suo operato. Gli animali non sono soltanto un bacino simbolico da cui l’uomo ha sempre attinto, ma «gli altri» con cui condivide il pianeta.
Nella moda, ad esempio, questo discorso ha portato a rinunce dello sfruttamento animale e politiche di rispetto come quella “fur free”, riguardante la produzione di pellicce (da Gucci a Versace, da Armani a Givenchy). Nella mostra infatti non vi sono esposte pellicce, e un cartellino (forse troppo piccolo e discostato) si premura di sottolineare l’interesse della curatrice ad allontanarsi da ogni idea di abuso dell’animale da parte del fashion system.
Mostre sulla moda come “Animalia Fashion”, infine, sono necessarie perché in grado di palesare la capacità della moda stessa di intercettare i movimenti del mondo circostante e di restituirli con i propri strumenti, come un sismografo di eventi e trasformazioni.
Pierpaolo Lippolis
Per tutte le foto: Credits di Andrea Paoletti

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