L’arte è tutta un film

di - 9 Settembre 2012
Mentre al Lido di Venezia si inaugurava la 69esima edizione della Mostra Internazionale d’arte Cinematografica, François Pinault, magnate del lusso e proprietario della Punta della Dogana, a Palazzo Grassi rilanciava presentando 30 opere della sua collezione di immagini in movimento, film, video, installazioni sonore, dagli anni Novanya ad oggi. 27 gli artisti selezionati (nessun italiano), tra cui Adel Abdessemed, Yael Bartana, Mircea Cantor, Cao Fei, Paul Chan, Peter Fischli e David Weiss, Michel Francois, Cameron Jamie, Hassan Khan, Zoe Leonard, Liu Dahong, Bruce Nauman, Shirin Neshat, William Pope.L, Anri Sala, Javier Tellez, Bill Viola, Mark Wallinger eYang Fudong.
L’arte è tutta un film – a proposito, a novembre non perdetevi una chicca da cinefili: la visione del film Commedia (1965), di Samuel Beckett e Marin Karmitz, proiettato nel 1966 in occasione del Festival di Venezia e allora considerato rivoluzionario – e Venezia è un set cinematografico polisensoriale, anche per questa prima mostra di Palazzo Grassi, “La  voce delle  immagini” curata da Caroline Bourgeois, interamente dedicata alla video arte,
Nell’atrio vi da il benvenuto la complessa installazione Mybe the sky is realy green and we’re just colorblind di Johan Grimonprez (1962), antropologo di formazione che realizza assemblaggi di immagini e oggetti di recupero diffuse su internet (Youtube, foto scattate con telefoni cellulari, podcast, webtv), mettendo a fuoco una possibile chiave di lettura della globalizzazione: l’epoca della “riproducibilità  web” in cui noi siamo le immagini che consumiamo.
La manipolazione dell’informazione e la dipendenza dalle immagini sono i temi enunciati dall’autore, che in modo ironico ci mostra il dominio della comunicazione e la schiavitù dello zapping, condiviso da un capo all’altro del mondo. Nel Mezzanino, entrate nelle due mini sale cinematografiche, dedicate a film e cortometraggi che cambieranno da settembre a gennaio. Questo mese proiettano in una stanza Temps Mort (2009) dell’algerino Mohamed Bourouissa (1978), film-cronaca di una corrispondenza di sms e mms, video girati con il telefono cellulare tra un gruppo di detenuti e l’artista. In cambio di immagini di scene di vita quotidiana in carcere, i detenuti hanno ricevuto imm  agini del mondo esterno e dallo scambio di sequenze arruffate, anche violente, emerge con evidenza il tema: l’attuale  condizione dei carcerati.
Nell’altra sala c’è Nocturnes (1999) dell’albanese Anri Sala (1974), un film dalle atmosfere crepuscolari, che racconta di due personaggi, quasi “marziani”, che vivono  ai margini della società: un casco Blu (di stanza nei Balcani) e un regista, collezionista di pesci policromi, appassionato di acquari. Il risultato è potente e ogni  immagine dà voce a emozioni struggenti. Al primo piano del Palazzo, inizia il percorso espositivo con un’altra opera di Anri Sala Uomoduomo (2000): è un video brevissimo che riprende il sonno di un uomo anziano, ricurvo su se stesso, visibilmente fragile, forse senza fissa dimora, seduto su un banco del Duomo di Milano. I suoi movimenti bruschi e sussulti tradiscono sogni agitati, mentre gli altri sullo sfondo dell’immagine, appaiono indifferenti alla scena.
Proseguite il cammino immergendovi in sale oscurate da pannelli e tendoni, per adattarle a proiezioni video che richiedono ambienti poco illuminati e tempi di sosta prolungati. Lasciatevi andare e non abbiate fretta di uscire e avrete la sensazione di vivere in una “sequenza unica”, composta da immagini diverse per temi, atmosfere e problematiche. Vi troverete  immersi in un caleidoscopio di suoni e di colori che compongono la mostra in cui il protagonista non è l’immagine, ma è lo sguardo dello spettatore che fruisce soggettivamente delle opere che rappresentano la complessità del presente. Così, oscillando tra temi grevi e leggeri, suoni e colori che suscitano angoscia o leggerezza, scorrerà il tempo, qui liquefatto in un magma d’immagini cinetiche, senza farvi evadere dalla realtà, restando immersi in una cronaca del mondo secondo la visione degli artisti
Tra le altre opere esposte, ipnotizza lo sguardo smarrito di una donna imbustata in un burqa nero tra l’indifferenza degli agenti che indossano divise e passamontagna rigorosamente black. Quest’opera, intitolata Eyes (2006) dello svizzero Peter Aerschman (1969), sembra un video game dai colori cupi, inquietanti, che potenzia il messaggio grazie al loop e invita lo spettatore a riflettere sulle variabilità della dissimulazione del viso in  luogo pubblico. Cercate l’opera cult della collezione, For Beginners (2010) di Bruce Nauman (1947), tra i padri della video-arte con Nam June Paik, artista coreano che nel 1968 che, in occasione della personale “Electronic Art” coniò il nome del nuovo media, diventato un linguaggio artistico sempre più raffinato dagli anni Ottanta ad oggi.
L’installazione ambientale di Nauman, qui presentata per la prima volta in Europa, acquistata da Pinault lo scorso anno, consiste in una doppia proiezione che riproduce in grande un alfabeto visivo basico fatto di gesti delle mani dell’artista che si muovono a intermittenza cadenzata, guidate fuori campo da una serie di istruzioni verbali. I gesti, quasi pittogrammi, si modificano tramite diverse combinazioni fra pollici e altre dita della mano e producono immagini d’impatto pittorico dalla forza ipnotizzante. Nella collezione non poteva mancare Bill Viola (1957), celeberrimo video-pittore, presente con l’installazione Hall of Whispers (1995) caratterizza da dieci individui, uomini e donne imbavagliati, in bianco e nero, con occhi chiusi resi vivi solo da un filo di voce in sottofondo e inquadrati da vicino.
L’unica  opera site-specific è Campo San Samuele (2012), videoinstallazione di Zoe Leonard (1961), fotografa interessata alla natura del mezzo fotografico e alle percezioni delle immagini, che in una stanza riproduce una camera oscura, dove sul soffitto galleggia una veduta panoramica del Canal Grande e di Ca’ Rezzonico, situata di fronte a Palazzo Grassi. L’immagine sottosopra della città lagunare, rovesciata come nel mondo di Alice, spiazza il punto di vista e apre riflessioni sull’ambiguità della percezione.
Ma, a mio avviso, l’opera indimenticabile, struggente per una poetica della semplicità è Vertical Attempt (2009), un video della durata di un secondo del rumeno Mircea Cantor (1977), trasferitosi a Parigi per sfuggire al regime di Ceausescu, che  ritrae un bambino nell’intento di tagliare l’acqua con un paio di forbici. L’immagine metastorica, proiettata in loop, e la scansione rapida dell’azione trasformano il suo gesto in un rito che evoca un haiku, forma poetica giapponese che canta l’evanescenza delle cose terrene.                            

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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