È un tema caro a tutti, anche se in modi molto diversi, a seconda dei gusti, letteralmente. Perché il cibo è una filosofia antichissima quanto la sua pratica, un concetto raffinatissimo e un istinto primordiale, tra narrazioni condivise ed esperienze molto personali, a tavola come in tanti altri luoghi e occasioni. Se ne parla allo Spazio FARE del Mercato Centrale di Roma, che ospita L’Arte presa per la gola, ciclo di conferenze a cura di Fabiana Mendia.
L’invito è ad attivare i sensi e a immergersi in un flusso che attinge da novelle, vite di santi e re, romanzi, documenti d’archivio, opere d’arte, storie di chef e delle loro invenzioni, dal mondo antico alla contemporaneità. Ogni incontro approfondirà le opere d’arte, espresse attraverso un’ampia serie di supporti e linguaggi, tra mosaici, affreschi, dipinti, sculture, incisioni, che daranno un’immagine al racconto, attraverso una selezione iconografica legata alla tavola e agli alimenti. Ad accompagnare il percorso, una selezione di testi critici e letterari che lasciano spazio all’immaginazione.
Il sesto incontro si terrà il 6 maggio, alle 19, e già dal titolo promette di essere particolarmente saporito: Al largo e sottocosta. Non parliamo di pesci in barile. Le orate di Velázquez, l’aragosta di Dalì. Tra gli autori citati, filosofi, scrittori, cuochi e amanti del bel vivere, come Roland Barthes, Giovanni Boccaccio, Giacomo Casanova, Edwin Cerio, Marcel Proust, Bartolomeo Scappi. «Stupefacente e misterioso, il mondo dei pesci ha affascinato fin dall’antichità l’immaginario dell’uomo», spiegano gli organizzatori. «Da sempre fonte primaria di sostentamento, in primo piano nel processo di accumulazione del capitale tra medioevo ed età moderna e, in seguito, motore di un settore industriale di prima grandezza, il pesce ha assunto valenze che trascendono l’aspetto meramente alimentare per definirsi come protagonista di opere d’arte e veicolo di significati simbolici».
L’incontro del 6 maggio ripercorrerà la storia dell’arte e l’evoluzione della cucina di mare attraverso l’analisi di dipinti di autori italiani, fiamminghi, olandesi, francesi, tedeschi, spagnoli e brani letterari, ispirati dai caleidoscopici giochi di luce dei pesci rovesciati sui banchi dei mercati del Mar del Nord o boccheggianti sugli arenili e nelle grotte del Mediterraneo. L’excursus storico e iconografico dai mosaici romani, simili a ricchi fondali marini, all’epoca d’oro della natura morta con il Seicento italiano e fiammingo, fino a Velázquez, Goya, Manet, e al più contemporaneo Salvador Dalí, approfondisce la storia della cucina e l’evoluzione dell’arte culinaria dal mondo antico alla contemporaneità.
«Velázquez nella tela intitolata Cristo in Casa di Marte e Maria (1619-20) raffigura due soggetti, uno sacro dove le donne sono concentrate ad ascoltare le parole di Gesù e uno di genere dove si assiste in primo piano a una liturgia dei profumi in un protocollo culinario. Il dipinto è un superbo brano di vera e propria natura morta dove viene suggerita la ricetta spagnola dell’orata in crosta di sale in salsa alioli. Il pittore gioca allusivamente anche con lo spazio e crea la sensazioni di un ambiente reale e praticabile, invita l’osservatore a entrare, a sfiorare le cose e a respirare gli odori che vibrano nell’ordinata e silenziosa atmosfera della cucina. Casanova racconta l’arte di amare le ostriche in compagnia, Goya trasfigura gli “orrori della guerra” in tranci di salmone, Chardin ritrae una razza “tinta di sangue rosso, di nervi blu e di muscoli bianchi, come la navata di una cattedrale policroma”, una forza espressiva che colpì e attrasse Proust.
Infine, l’aragosta diventa icona surrealista, nell’opera Lobster Telephone realizzata da Dalì. La prima versione Telefono afrodisiaco fu esposta in occasione dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo presso la Galerie des Beaux-Arts di Parigi nel 1938. Infatti, la forma fallica dell’aragosta e il suo potere afrodisiaco potevano scatenare associazioni di carattere erotico. Tuttavia, il crostaceo era una delle figure più apprezzate nella personale simbologia di Dalì: l’artista avvertiva la consistenza rigida del carapace come una vera e propria corazza difensiva, metafora del ventre e dello scudo che lui stesso si era costruito a difesa della propria fragile e controversa identità».
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