L’artista non è un errore genetico

di - 17 Aprile 2019
Carlo Zinelli (1916, San Giovanni Lupatoto – 1974, Verona) passò a partire dal 1941 trentatrè anni nell’ospedale psichiatrico di San Giacomo alla Tomba per “crisi di paura e aggressività”, quando, tornato nel 1939 da una missione di supporto al contingente nazionalista del generale Franco in Spagna, iniziò a dare i primi sintomi di squilibrio.
La sua vicenda è esemplare per comprendere il fenomeno dell’arte o della creatività degli alienati mentali, di chi non ha rudimenti artistici eppure, nel chiuso di un manicomio, inizia a esprimere le proprie sofferenze attraverso disegni, oscuri e ossessivi graffiti, parole incomprensibili scritte su fogli. La domanda è quella che si posero tra i primi, all’inizio del XX secolo, Otto Kurz e Ernst Kris, e poi anche Ernst Gombrich, a proposito di Wöllfli e dello scultore di corte Franz Xavier Messerschmidt: arte o follia? Inutile stare a scomodare esempi illustri quali quello di Van Gogh o di tanti outsider convogliati nell’Art Brut grazie a Jean Dubuffet (che venne a conoscenza dell’opera di Zinelli).
Ma la vicenda di Zinelli è esemplare perché già in vita di lui si occupò Dino Buzzati presentandone una mostra personale presso la Galleria La Cornice di Verona nel 1957 e poi Harald Szeemann, esponendo nel 1963 delle sue opere in Insania Pingens presso la Kunsthalle di Berna, senza contare che in anni più recenti lo stesso Museo dell’Art Brut di Losanna gli ha dedicato una mostra antologica nel 1996, che Francesco Bonami lo ha inserito nel 2008 in Italics: arte italiana tra tradizione e rivoluzione 1968-2008 a Palazzo Grassi a Venezia o che l’American Folk Art Museum di New York ha organizzato una sua retrospettiva nel 2017.
Carlo Zinelli, Vista della mostra
Nel suo testo in catalogo edito da Corraini (in cui viene peraltro ricostruita perfettamente e appassionatamente la vicenda dell’artista da Lorenza Roverato), il curatore Luca Massimo Barbero parla senza mezzi termini di assonanze con l’opera di Enzo Cucchi per via di alcuni “volatili megalitici apparsi decenni dopo nelle grandi tele” del pittore anconetano, uno dei protagonisti più insani e anarchici della Transavanguardia.
Viene però in mente Jean Clair quando ironizzava e polemizzava sul fatto, in Critica alla modernità, che se molti bambini in gita al museo possono agilmente riprodurre opere di Mirò, Matisse o Picasso, ci si dovrà chiedere se si tratti allora di grande arte!
Provocazioni a parte, l’arte è sostanza alienante, necessariamente, e di questo concetto proprio le avanguardie ne hanno fatto una bandiera, se pensiamo agli accostamenti fatti dalla stampa borghese dell’epoca delle opere di cubisti ed espressionisti con quelle di alienati mentali e bambini o dai curatori della mostra nazista Entartete Kunst (Arte Degenerata) del 1937.
Se dunque l’arte è alterità o ricerca di essa, Zinelli è senza dubbio un artista.
Detto ciò rimane da capire il contenuto della sua arte.
Per un malato mentale si tratta inevitabilmente di stabilire un dialogo col mondo esterno col quale non può interloquire in modo tradizionale (provate a farlo rinchiusi e reclusi dal mondo “normale” all’interno di un manicomio, un carcere o una casa di cura). Per certi versi esemplare è stata, insieme a quella di Zinelli, la vicenda di Nannetti Oreste Fernando (NOF4 come amava firmarsi), che su un muro del manicomio di Volterra graffiò con la cinghia della sua cinta figure, alfabeti, pensieri, che a sua volta tradusse e trascrisse interamente lo scultore Mino Trafeli (1922-2018), che il Nannetti lo aveva conosciuto e studiato per anni.
Carlo Zinelli, Vista della mostra
La mostra Carlo Zinelli. Visione continua, allestita con un bel progetto espositivo di We Exhibit, mette letteralmente “in scena” opere della collezione della Fondazione Cariverona, dentro il suggestivo spazio dell’Ala Napoleonica di Palazzo Te. Fogli fronte/retro, grandi pannelli su cui sono state stampate le figure tipiche di Zinelli, costituiscono un percorso quasi labirintico, come deve essere stato il flusso dei pensieri dell’artista/alienato.
Sebbene Zinelli avesse partecipato ai laboratori di arte istituiti da Michale Noble (scultore amico di Berenson, ma anche spia al servizio dei servizi segreti britannici a supporto del Psychological Warfare Branch, che aveva il compito di controllare i mezzi di informazione di massa italiani) e dal medico dell’ospedale di San Giacomo Cherubino Trabucchi, rimane un artista psicotico a tutti gli effetti, con un suo stile ovviamente, ma anche con tutte quelle tipicità che caratterizzano prodotti del genere. Dalla ripetizione ossessiva di alcuni motivi (“marchingegni,”, “cerchi”, “uccelli”, “pretini”, “barche” sono infatti le sezioni in cui è divisa la mostra), al vero e proprio horror vacui, alla scrittura scarabocchiata e intraducibile, piuttosto graffita, ci son tutti gli elementi che fanno di queste opere espressione di un disagio, alfabeti autoreferenziali, nonostante assonanze con quanto fatto ad esempio da Louise Bourgeoie, Yayoi Kusama, Öyvind Fahlström, ai quali potremmo aggiungerei, anche e soprattutto, il neoespressionista A. R. Penck.
Carlo Zinelli, Vista della mostra
Non si tratta di dare dignità a un linguaggio border line (dopo Dubuffet e l’istituzionalizzazione museificata dell’Art Brut non è più tale), quanto di capire che al fondo del linguaggio del segno vi è sempre e comunque una componente espressiva, simbolica, forse anche spirituale, che nelle arti di avanguardia, concettuali, postmoderne, ipercontemporanee e professionalizzate, è stata del tutto marginalizzata come residuo inutilizzabile.
Se da una parte rimane forse folkloristico e snob introdurre, come fatto in anni recenti e in grandi rassegne, opere di artisti alienati a fianco di consumati professionisti inseriti nel mondo dell’arte (azione terapeutica solo per chi è già “sano” e allineato nel sistema di tendenza del contemporaneo), l’occasione di esporre in modo nudo e crudo opere di un artista come Zinelli può essere utile per affermare non tanto l’indifferenza tra arte e creatività, stile e disagio mentale, quanto per studiare le forme nella loro relazione con le intenzioni dell’autore. L’artista dunque non è un errore genetico, ma il senso stesso dell’arte!
Marco Tonelli

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