C’era un tempo – non troppo lontano – nel quale le mostre d’arte contemporanea in Italia si vedevano soprattutto nelle grandi città, promosse da musei e centri d’arte di livello internazionale. La memoria corre all’antologica di Gilberto Zorio al Mambo di Bologna, alla personale di Wolfgang Laib alla fondazione Merz di Torino, alla collettiva “Indian Higway” al MAXXI di Roma o, in tempi ancora più lontani, a rassegne memorabili come “La sindrome di Pantagruel” che coinvolgevano tre istituzioni torinesi (Rivoli, Sandretto e GAM). Oggi invece sempre più spesso le esposizioni più interessanti si tengono in luoghi periferici, dove l’attenzione e la cura sono più forti e sentite: non è un caso che l’ultima mostra di Kounellis in Italia si sia tenuta al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, che il Museion di Bolzano costituisca oggi un esempio virtuoso di programmazione e il Pecci di Prato sia stato riaperto con “La Fine del Mondo”, una collettiva di ampio respiro, forse troppo affollata ma ricca di spunti di notevole interesse. Sempre in Toscana, in uno dei luoghi più lontani da mode e mainstream, la Tenuta dello Scompiglio, immerso nel paesaggio della Lucchesia ma attento alle problematiche della contemporaneità in senso largo (dal teatro alla musica fino alle arti visive) è ancora aperta una delle mostre più intense della stagione: la personale dell’artista messicana Teresa Margolles “Sobre la Sangre”, mirabilmente curata da Francesca Guerisoli, specialista di arte latino americana, e Angel Moya Garcia, direttore artistico dello Scompiglio.
Teresa Margolles, Sobre la sangre, Il Testimone, 2017 Oisiris “La Gata” (Luis Humberto Garcia Robledo, 1984-2016)
La Margolles, nata a Cuyacan nel 1963, non è del tutto nuova al pubblico italiano, che ha potuto conoscere il suo lavoro in varie occasioni espositive, dalla collettiva “Aire/Aria” (2008) alla Strozzina di Firenze al padiglione messicano alla Biennale di Venezia del 2009 fino a “Frontera”, una cruda e violenta installazione proprio al Museion di Bolzano (2011). Eppure “Sobre la Sangre” permette non solo di comprendere meglio il senso del suo lavoro, che scaturisce da un contesto sociale drammatico, sottolineato in maniera chiara e precisa nell’ottima recensione della mostra pubblicata da
Daniela Trincia su Doppiozero, ma è un’esperienza immersiva e completa, che va al di là della mostra in sé, attivando pensieri e considerazioni sul dramma del femminicidio, senza però esagerare nella rappresentazione ma mantenendo il livello di attenzione concettuale ed emotivo sempre attento, carico di una tensione non provocata da una visione ma piuttosto da un’evocazione. Così l’allestimento di “Sobre la Sangre”, concepito come un’unica installazione, assomiglia ad una discesa agli inferi, un passaggio dalla luce all’oscurità, dalla visione rasserenante del paesaggio toscano alle strade insanguinate di Ciudad Juarez in Messico, una delle città più violente del mondo. È lì che Teresa Margolles combatte la sua battaglia quotidiana contro lo sterminio di donne e transessuali uccise dalle pandillas, le bande armate che nel 2005 hanno sterminato ben 4mila e 456 donne. La sua arte denuncia senza mostrare corpi seviziati o torturati, ma solo tracce del soggetto ucciso, testimonianze e memorie cariche di violenza senza mai mostrarla direttamente, come nel caso della prima opera che accoglie il visitatore allo Scompiglio. Si tratta di
Frazada/La sombra (2016), un’ombrello composto da una coperta utilizzata per avvolgere il corpo di una donna uccisa all’obitorio di La Paz, in Bolivia. Una donna senza storia, che fa ombra sulle centinaia di corpi anonimi che l’artista fa rivivere nelle sue opere, come le dieci vittime di femminicidio ricoperte da teli bianchi, utilizzati da Margolles per realizzare
Wila Pajharu/Sobre la sangre (2017), l’opera centrale dell’intera mostra, allestita all’interno di una struttura nera suddivisa in tre gallerie, illuminate solamente da faretti direzionati sulle opere in maniera molto efficace.
Teresa Margolles, Sobre la sangre, Frazada (La Sombra), 2016 La Paz, Bolivia. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo
Una tela bianca lunga 25 metri posizionata su un piano retroilluminato, della stessa altezza di quelli utilizzati negli obitori, sulla quale un gruppo di sette donne dell’etnia Aymara ha ricamato una serie di decorazioni con paillettes e perline colorate, secondo i motivi tipici delle danze popolari boliviane, che lasciano intravedere, ad un occhio attento, le macchie di sangue ancora presenti sul tessuto: l’artista aveva addirittura suggerito di riprodurre alcune scene di violenza sessuale subite dalle donne uccise, ma le ricamatrici si sono rifiutate. Così questa tavola regale, impreziosita da ricami pregiati e delicati, sembra appartenere a cerimonie religiose festose e felici, mentre nasconde un’anima terribile che diventa ancora più insopportabile con questo efficace camouflage. Le due sale laterali, delle stesse dimensioni, sono dedicate alle storie di due prostitute transessuali di Ciudad Juarez: Karla, uccisa a 67 anni nel 2015, e La Gata, assassinata a 32 anni nel 2016. In fondo alla sala sono installati i loro ritratti fotografici a grandezza naturale, in bianco e nero e su light box, mentre dalle pareti alcuni speakers diffondono con un tono basso, quasi sussurrato, le loro voci e le voci di chi le ha conosciute da vicino in italiano e spagnolo: una sorta di sottile litania funebre, che rende il racconto ancora più sobrio ed essenziale, ma diretto nella sua drammatica evidenza. Karla e La Gata sono state barbaramente uccise ma non rivendicate da nessuno, perché vivevano ai margini della società e quindi erano personaggi scomodi, corpi dei quali poter abusare liberamente senza troppi sensi di colpa. E oggi, dopo i fatti di Rimini, il coraggioso e profondo lavoro di Teresa Margolles si dimostra tragicamente attuale anche in Italia, dove essere donna diventa ancora, giorno dopo giorno, più problematico.
Ludovico Pratesi