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16
settembre 2018
Le traiettorie ambivalenti
Progetti e iniziative
Città, territori, lunghezze e brevità. A seconda di come lo si guardi, di come lo si osservi, ecco l’orizzonte trasversale del contemporaneo in tre mostre alla Fondazione Sandretto
Vi sono alcune certezze ogniqualvolta ci si rapporta a un nuovo progetto “made in FSRR”.
La forma di mecenatismo attuata dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è un’attività mobile aperta a nuove sperimentazioni e reti di relazione; la sua cultura altrettanto ha una sorta di venerazione per le folte complessità territoriali. Con i tre progetti: “Tell me a story: Locality e Narrative”, “Coming soon” e “Lina Bertucci al Borgo San Paolo”, si confermano le linee guida di un’istituzione intenta alla diffusione e la valorizzazione dei linguaggi del contemporaneo, e in particolar modo alle recenti indagini in ambito curatoriale. “Tell me a Story: Locality e Narrativ”e è il secondo progetto realizzato in collaborazione con il RockBund Art Museum di Shangai dopo “Walking On The Fade Out Lines” presentato in Cina lo scorso marzo: si tratta di un progetto in cui dodici artisti di origine asiatica creano un impianto concettuale capace di raccontare l’identità e l’immagine contemporanea del continente asiatico attraverso prospettive divergenti e inedite: partendo da un’indagine comparativa tra la storia dei luoghi e il loro stato attuale, in un intreccio di vicende personali e convergenze globali. Nel solco tracciato dalla memoria troviamo l’opera di Apichatpong Weerasethakul Fireworks (Archive). Apichatpong regista, produttore e sceneggiatore cinematografico, già noto per aver vinto la prestigiosa Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2010 con Uncle Boonmee, mette in scena il viaggio notturno verso un tempio al nord della Tailandia, trasportando lo spettatore indietro agli anni settanta quando Bangkok fu colonizzata e bombardata dall’esercito americano, tra fuochi e echi di guerra. In occasione dell’opening è stato possibile assistere alla performance dell’artista taiwanese Watan Wuma. La sua performance è un “ipertesto” in cui il corpo si libera da qualsiasi illusione per attingere consapevolezza dalla storia: l’artista ha trascorso più di dieci anni nell’esercito prendendo servizio in un manicomio militare, la sua pratica teatralizza una marcia sincopata, una ritualità lenta e stanca che lo porta ad allacciare agli arti inferiori e all’avambraccio luci al neon e lampade elettriche: affiorano pian piano dai gesti motivi lucenti nell’aria, barlumi di luce che s’intrecciano come trame, che diventano simulacri di rappresentazione di un’antologia personale e di quella dell’Asia orientale. L’occhio vede il corpo, superficie mutevole e organica, com’era all’epoca della legge marziale.
Coming Soon, Stucchi
L’installazione A Ship Believing the Sea is the Land dei sudcoreani Hae Jun Jo e Kyeong Soo Lee, è un apparato cross mediale che ripercorre la memoria collettiva del Paese, documentando il rapporto fra Hae jun Jo e suo padre, avvalendosi di una simbologia che allude alla relazione fra l’artista e la propria terra, manifestando un’interdipendenza tra memoria e materia. Parte dell’opera è composta da ottantaquattro schizzi a parete di Hae Jun Jo, che rievocano i racconti di suo padre, e un’installazione, una “barca arenata” ritrovata nella città di Gunsan nei pressi della base militare statunitense. L’aneddoto familiare che ricuce i fili di un’epoca, la scialuppa, splendidamente ricoperta da strati di paraffina luccicante, è il segno bianco, a dir poco fantasmagorico, del viaggio in rotte immaginifiche dell’infinitezza, che annulla la durata e l’istante nel cono visivo di chi osserva, albergando in una dimensione nebulosa, del tutto sospesa e per sempre ovattata. Posta idealmente in una terra di mezzo, la barca porta con se sparute sculture in legno e un monitor che trasmette un corto, Scenary of Between, ovvero l’incidentale ritrovamento della suddetta, e leggende legate alla tradizione popolare coreana. Incagliata nel corridoio perimetrale che accompagna il transito degli spettatori, appare come metafora dell’ignoto, come l’incontro rilucente di un involontario nocchiero asiatico che ci conduce nell’affascinante terra contesa di Sud Corea.
Inghiottito nel flusso agitato del mondo reale il collettivo MAP Office elabora una sintesi tra geografia e “cartografia immaginaria”. Hong Kong is Land è una visione futuribile di Hong Kong: il collettivo concepisce una soluzione composta da otto carte geografiche a ognuna delle quali viene associata un’isola artificiale, attua la sovrapposizione del lessico della tradizione all’indagine sulle attuali tecniche grafiche e
metodologie di stampa. Ma l’aspetto ignoto, o se vogliamo profetico, di una città costruita su un’assenza di centro, su cumuli di gusci di ostriche, giardini pensili e una baia di scarti, è accentuato da prospettive architettoniche e strutture fantastiche tale che, se da un lato sperimenta “nuove possibilità narrative”, dall’altro vive la frenesia del presente e osserva le sue moltitudini, quella che Baudelaire definiva la prosa del poeta metropolitano. Una visione progressista di una metropoli. Ora più a occidente dell’occidente.
Le opere di artisti come Koki Tanaka, in mostra all’ultima Biennale di Venezia, e le fotografie di Tomoko Yoneda, sull’isola disabitata di Sakhalin, così come le opere di Chen Po – I, Au Sow-Yee, Lucy Davis, Guo Xi and Zhang Jianling, Hsu Chia-Wei, Field Recordings e Su Yu-Hsien si inseriscono nel filone che elabora gli effetti delle forze antropiche sui luoghi, rivelando un’interessante disamina di dati sul paesaggio e sui contesti sociali, dal recente passato sino alla loro condizione attuale.
Coming Soon, Beatrice Marchi, Loredana Across The Landscapes
“Coming Soon” è invece il progetto che conclude il programma di residenza per giovani curatori 2018 (Young curators’ residency programme), che propone il dialogo sperimentale fra le visioni di tre curatrici come
Mira Asriningtyas, Nora Heidorn, Kari Rittenbach e nove artisti italiani, tra emergenti e affermati. La mostra è una riflessione sul concetto di tempo nella società contemporanea che muta a seconda delle diverse angolazioni da cui lo si osserva. Nel catalogo pubblicato in occasione della mostra (NERO), con interventi di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, Lucrezia Calabrò Visconti e diverse letture tematiche, le tre curatrici sviscerano il valore tempo impartendo un’educazione a assonanze e contrasti transitori in base alla localizzazione e al campo d’azione del singolo, un’osmoregolazione individuale in un tempo sempre più ipertonico, con una rivalutazione della sua accezione meno moderna, ossia quella legata alla non – produttività. Dalla riflessione scaturiscono molteplici temporalità legate al tema del viaggio nel paesaggio urbano, alla visione ideale del luogo, come nell’esperienza di Mira Asriningtyas; vincolate al controllo della biopolitica e alla simultaneità con il sistema coercitivo come in Nora Heidorn, oppure allo scontro fra temporalità locale e temporalità globale nel caso di Kari Rittenbach. Gli artisti italiani invitati a confrontarsi con queste tematiche si sono relazionati in modo del tutto non convenzionale. A partire dal siciliano Leone Contini, ora anche in mostra con Foreign Farmers a Manifesta 12, che presenta un lavoro composto da una cella di germogliazione e una serie di germogli di semi, terreno italiano, acqua del fiume Po; la sua analisi indaga aspetti come migrazioni, identità nazionale e culture lontane, attraverso esperimenti nel campo della biologia vegetale e un approccio formale del tutto ermeneutico; le fotografie di Lisetta Carmi fra identità di genere e “assenza visiva”; la performance di Giulia Crispiani incentrata sulla fragilità del presente; la Radio Ghetto Relay di Alessandra Ferrini nata da un progetto di comunicazione broadcast a favore delle marginalità; il percorso itinerante del collettivo Kinkaleri; il viaggio diacronico nella pittura paesaggistica di Beatrice Marchi; i cortometraggi di Marinella Pirelli, i suoi studi sulla luce e il suo pittoricismo; il readymade da campeggio di Francesco Pozzato; l’iconografia tutta mediterranea appesa a un filo di Davide Stucchi, una linea narrativa autobiografica, slancio tridimensionale e sostegno, catena di ferro a cui appendere lunghi spaghetti al peperoncino, che si trasforma in curva del disegno e poi ancora in una gruccia di ferro. Infine una nota di merito va al progetto di Lina Bertucci ai suoi ritratti fotografici al Borgo San Paolo e al suo profondo legame con il territorio. Accade a tal punto d’imbattersi in un mondo che percorre traiettorie ambivalenti, che suggerisce innumerevoli spunti. Città e territori, lunghezze e brevità parallele. A seconda di come lo guardi, a seconda di dove lo osservi.
Rino Terracciano