Lui è un omino quasi modesto, capelli bianchi, incedere lento, tutto fuorché una star. Che per la mostra che si apre oggi alla galleria Gagosian di Roma, anziché intrattenersi con il pubblico che si riversa nello spazio di via Crispi e gironzola tra i suoi “poligoni” forse spaesato e forse più attratto dalle chiacchiere e dai numerosi clic dei fotografi presenti, che da quelle asciutte costruzioni in acciaio, ha preferito andarsene in giro per Roma a vedere…indovinate chi? Borromini, ovviamente. Un altro grandissimo e tormentato visionario. Un altro che con geometrie e immagini prese dalla natura ha costruito un mondo.
Nel frattempo Walter De Maria il suo lavoro, anzi il suo miracolo, l’ha già fatto. Ha trasformato la già pur bella galleria Gagosian in uno spazio sacro. In una cattedrale vuota (se si ha la fortuna di vederla senza nessuno) e rimisurata dalle attente geometrie delle sue installazioni. The 5-7-9 Series, realizzata per la prima volta nel 1992 e in esposizione permanente alla Gemaldegalerie di Berlino, si compone di 27 elementi verticali con base di cinque, sette o nove lati, rimodulabile in 27 soluzioni diverse, in modo da realizzare tutte le combinazioni possibili. Che De Maria abbia un debole per la numerologia o elucubrazioni esoteriche? «Per niente, il suo è solo puro amore per la geometria», spiega Pepi Marchetti, direttrice di Gagosian Roma. Ed è una forte emozione passeggiare per quelle severe sculture in acciaio, ripercorrendo i suoi itinerari mentali, quelle idee, che lì si possono solo intuire, che l’hanno portato a realizzare The lighting field, quel pezzo di deserto del New Mexico di 3 chilometri quadrati, dove nel 1977, con altrettanta precisione, ha piantato 400 pali di metallo che catturano l’energia dei fulmini creando un sublime spettacolo di luce. «E’ impressionante. La mattina, con il sole, quasi non li vedi, ma poi con la luce del tramonto si infuocano e, se si ha la fortuna di trovarsi lì in un giorno in cui può piovere, vedi il cielo incresparsi della luce dei fulmini», racconta Pepi Marchetti.
Sì, il sublime. Quel sentimento che due secoli fa il filosofo e politico (ahi ahi, quando i politici erano anche filosofi!) Edmund Burke «identificò nell’istinto umano alla salvaguardia della propria persona e l’incontro con l’assoluto, l’infinito e la morte», come ricorda Lars Nittve nel catalogo che accompagnava la mostra The 5-7-9 Series, presentata dalla Gagosian Gallery nel 1992, e ripubblicato oggi in occasione della mostra romana.
Il sublime e l’estetica del sublime teorizzati anche da Kant. Un incontro con la natura che non ha niente di rassicurante, ma neanche di panico. Perché c’è una sproporzione, uno scarto quasi impossibile da colmare tra noi e la natura sovrana. E quindi non c’è spazio per emozioni, sia pure terrifiche, ma solo per l’esperienza indicibile di qualcosa che ci supera nella sua assolutezza. Quello scarto che De Maria ha attraversato con le sue utopie plastiche. Le installazioni The New York Earth Room (1977), in mostra permanente al Dia Center di New York, dove la grande sala espositiva è ricoperta di terra, nuda e muta, mentre fuori impazza il rumore della Grande Mela o The Broken Kilometer (1979), dove un chilometro di acciaio è fatto a pezzi lastricando il pavimento della sede della Dia Art Foundation a West Broadway.
Per ovvie ragioni, a Roma sono presentate opere più contenute, come Circle/Rectangle 11, composizione rettangolare i cui 11 elementi stanno a evocare proprio il Broken Kilometer, e The 13-Sided Open Polygon, un’altra installazione a terra le cui forme variano da cinque a diciassette lati con una sfera che si muove all’interno delle assi. E che evoca vita. Quella vita che va oltre. Quell’oltre della natura che Walter de Maria non è ancora stanco di rincorrere.
A. P.
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