Entrando nelle sale del Mart, dedicate a David Claerbout (a cura di Saretto Cincinelli, fino al 13 gennaio, catalogo Electa), il visitatore si ritrova immerso in uno spazio âaltroâ, in una dimensione totalizzante, ovattata, completamente avulsa dal mondo esterno e dal resto degli spazi del museo. Questo passaggio di dimensione è dovuto allâallestimento, curato dallâarchitetto Pedro Sousa. Giocato sui toni del bianco e del nero, esso avvolge â letteralmente, perchĂŠ ogni superficie è ricoperta di morbida erba sintetica â lâosservatore che si âimmergeâ in una totale semioscuritĂ ; costretto a muoversi lentamente, misurando le distanze, scrutando gli ostacoli, spinto a porsi in un atteggiamento di osservazione e contemplazione. Nelle parole dellâarchitetto stesso, ÂŤil progetto di allestimento della mostra completa lâinstallazione riflettendo sulla sospensione del tempoÂť.
Il lavoro di Claerbout, nato a Kortrijk nel 1969 â alla sua prima personale italiana dopo alcune esposizioni monografiche in musei internazionali di spicco come il Centre Pompidou di Parigi (2007), il San Francisco Museum of Art (2011), il museo della Secession a Vienna e la Parasol Unit Foundation for contemporary Art di Londra (2012) â è incentrato sulla contemplazione, sulla riappropriazione delle immagini, troppo spesso da noi fruite passivamente, senza che ci sia una reale consapevolezza dei meccanismi attraverso i quali le leggiamo. Ă lo stesso David Claerbout a darci la chiave di lettura non solo di questa mostra, ma della sua ricerca in generale: ÂŤSento il bisogno di aprire lo sguardo e per questo il tempo è il mio strumentoÂť. Per aprire il nostro sguardo sarĂ sufficiente lasciarci guidare dallâartista, il quale smaschererĂ , uno alla volta, tutti quei meccanismi che, senza nemmeno rendercene conto, vengono messi in atto quando unâimmagine si presenta al nostro sguardo.
LâimparzialitĂ della visione è uno dei primi pregiudizi che lâartista tenta di scardinare. Il video Rocking Chair del 2003, ad esempio, esplicita il principio per cui ogni nostra visione coincide necessariamente con uno solo dei molteplici punti di vista possibili. In questâopera, posta allâingresso della mostra, vediamo, ingigantita, la figura di una donna che lentamente oscilla, cullandosi su una sedia a dondolo. Un movimento breve, e apparentemente banale, viene amplificato allâinfinito dalla sua continua reiterazione; il viso della donna, intanto, entra ed esce ritmicamente da un cono dâombra, censurando e rivelando allâosservatore, in continuazione, lâidentitĂ della protagonista. Sul retro di questa proiezione si osserva un altro filmato: qui vediamo la stessa identica figura, impegnata nella medesima azione ripetitiva del dondolarsi, ripresa però, questa volta, di spalle. Con questo stratagemma lâartista, oltre a farci riflettere sul fatto che lâangolazione sotto cui vediamo le cose è sempre necessariamente parziale, ci fornisce lâopportunitĂ di vedere âlâaltra facciaâ unâimmagine video, e in questo modo ci svela come questo nella realtĂ non sia invece mai possibile.
In uno dei suoi primi lavori â Untitled (Single Channel View) â Claerbout ci porta a riflettere invece sullo slittamento che esiste tra il tempo della fotografia, bloccato e frammentario, ed il tempo del video, che per quanto obbligatoriamente parziale, scorre ed è narrativo. In questâopera possiamo osservare una vecchia fotografia in bianco e nero: in unâaula scolastica tutti i bambini, tranne uno che sembra fissare lâobiettivo della camera, sono fotografati mentre guardano fuori dalla finestra. Lo scatto che li ha immortalati li riprende bloccati nei loro gesti, immobilizzati per sempre in quelle posizioni: sulla parete alle loro spalle la proiezione dellâombra di un grande albero. Questa presenza rimanda inevitabilmente ad un giardino in una giornata di sole accecante, elementi questi che possiamo solo immaginare, in quanto posti fuori dal nostro campo visivo. Ad un primo, superficiale sguardo questo è tutto quello che câè da vedere nellâopera; se ci si ferma a questo punto, però, si è in realtĂ perso il vero senso del lavoro dellâartista. Ad unâosservazione piĂš attenta, che implica un attivo studio dellâimmagine e non una sua semplice visione passiva, ci si accorge di come in realtĂ gli alberi non siamo immobili come il resto della fotografia: le loro foglie fremono, mosse dal vento. Lâoperazione compiuta da Claerbout è insomma quella, paradossale, di far entrare il cinema nella fotografia (e non piĂš solo viceversa) e di palesare lo scarto temporale che da sempre esiste tra queste due forme espressive.
Unâulteriore riflessione dellâartista riguarda il rapporto tra i luoghi ed il tempo; ad esempio in Riverside (2009) si analizza il concetto di non simultaneitĂ degli eventi. In tempi diversi alcuni accadimenti occupano gli stessi spazi: mentre gli uomini possono esperire eventi diversi in luoghi diversi, ma sempre un luogo ed un evento per volta, spostando il punto di vista i luoghi sono obbligati testimoni di eventi cronologicamente sfasati, accaduti però sempre e solo presso di loro. In questo lavoro di Claerbout due schermi accostati raccontano le storie di due personaggi, un uomo ed una donna: apparentemente senza conclusione, queste narrazioni sono caratterizzate dal solo svolgimento. Col proseguire dei filmati, attraverso unâattenta osservazione, ci si accorge che in realtĂ le due storie sono ambientate, in momenti diversi, nello stesso luogo: il corso di un torrente di montagna. I due protagonisti, però, non sâincontrano mai, proprio perchĂŠ le due vicende, esperite da noi in simultanea, sono avvenute in realtĂ in momenti sfasati tra loro nel tempo.
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