L’inganno dell’occhio e della macchina fotografica

di - 17 Novembre 2012

Entrando nelle sale del Mart, dedicate a David Claerbout (a cura di Saretto Cincinelli, fino al 13 gennaio, catalogo Electa), il visitatore si ritrova immerso in uno spazio “altro”, in una dimensione totalizzante, ovattata, completamente avulsa dal mondo esterno e dal resto degli spazi del museo. Questo passaggio di dimensione è dovuto all’allestimento, curato dall’architetto Pedro Sousa. Giocato sui toni del bianco e del nero, esso avvolge – letteralmente, perché ogni superficie è ricoperta di morbida erba sintetica – l’osservatore che si “immerge” in una totale semioscurità; costretto a muoversi lentamente, misurando le distanze, scrutando gli ostacoli, spinto a porsi in un atteggiamento di osservazione e contemplazione. Nelle parole dell’architetto stesso, «il progetto di allestimento della mostra completa l’installazione riflettendo sulla sospensione del tempo».

Il lavoro di Claerbout, nato a Kortrijk nel 1969 – alla sua prima personale italiana dopo alcune esposizioni monografiche in musei internazionali di spicco come il Centre Pompidou di Parigi (2007), il San Francisco Museum of Art (2011), il museo della Secession a Vienna e la Parasol Unit Foundation for contemporary Art di Londra (2012) – è incentrato sulla contemplazione, sulla riappropriazione delle immagini, troppo spesso da noi fruite passivamente, senza che ci sia una reale consapevolezza dei meccanismi attraverso i quali le leggiamo. È lo stesso David Claerbout a darci la chiave di lettura non solo di questa mostra, ma della sua ricerca in generale: «Sento il bisogno di aprire lo sguardo e per questo il tempo è il mio strumento». Per aprire il nostro sguardo sarà sufficiente lasciarci guidare dall’artista, il quale smaschererà, uno alla volta, tutti quei meccanismi che, senza nemmeno rendercene conto, vengono messi in atto quando un’immagine si presenta al nostro sguardo.

L’imparzialità della visione è uno dei primi pregiudizi che l’artista tenta di scardinare. Il video Rocking Chair del 2003, ad esempio, esplicita il principio per cui ogni nostra visione coincide necessariamente con uno solo dei molteplici punti di vista possibili. In quest’opera, posta all’ingresso della mostra, vediamo, ingigantita, la figura di una donna che lentamente oscilla, cullandosi su una sedia a dondolo. Un movimento breve, e apparentemente banale, viene amplificato all’infinito dalla sua continua reiterazione; il viso della donna, intanto, entra ed esce ritmicamente da un cono d’ombra, censurando e rivelando all’osservatore, in continuazione, l’identità della protagonista. Sul retro di questa proiezione si osserva un altro filmato: qui vediamo la stessa identica figura, impegnata nella medesima azione ripetitiva del dondolarsi, ripresa però, questa volta, di spalle. Con questo stratagemma l’artista, oltre a farci riflettere sul fatto che l’angolazione sotto cui vediamo le cose è sempre necessariamente parziale, ci fornisce l’opportunità di vedere “l’altra faccia” un’immagine video, e in questo modo ci svela come questo nella realtà non sia invece mai possibile.

In uno dei suoi primi lavori – Untitled (Single Channel View) – Claerbout ci porta a riflettere invece sullo slittamento che esiste tra il tempo della fotografia, bloccato e frammentario, ed il tempo del video, che per quanto obbligatoriamente parziale, scorre ed è narrativo. In quest’opera possiamo osservare una vecchia fotografia in bianco e nero: in un’aula scolastica tutti i bambini, tranne uno che sembra fissare l’obiettivo della camera, sono fotografati mentre guardano fuori dalla finestra. Lo scatto che li ha immortalati li riprende bloccati nei loro gesti, immobilizzati per sempre in quelle posizioni: sulla parete alle loro spalle la proiezione dell’ombra di un grande albero. Questa presenza rimanda inevitabilmente ad un giardino in una giornata di sole accecante, elementi questi che possiamo solo immaginare, in quanto posti fuori dal nostro campo visivo. Ad un primo, superficiale sguardo questo è tutto quello che c’è da vedere nell’opera; se ci si ferma a questo punto, però, si è in realtà perso il vero senso del lavoro dell’artista. Ad un’osservazione più attenta, che implica un attivo studio dell’immagine e non una sua semplice visione passiva, ci si accorge di come in realtà gli alberi non siamo immobili come il resto della fotografia: le loro foglie fremono, mosse dal vento. L’operazione compiuta da Claerbout è insomma quella, paradossale, di far entrare il cinema nella fotografia (e non più solo viceversa) e di palesare lo scarto temporale che da sempre esiste tra queste due forme espressive.

Un’ulteriore riflessione dell’artista riguarda il rapporto tra i luoghi ed il tempo; ad esempio in Riverside (2009) si analizza il concetto di non simultaneità degli eventi. In tempi diversi alcuni accadimenti occupano gli stessi spazi: mentre gli uomini possono esperire eventi diversi in luoghi diversi, ma sempre un luogo ed un evento per volta, spostando il punto di vista i luoghi sono obbligati testimoni di eventi cronologicamente sfasati, accaduti però sempre e solo presso di loro. In questo lavoro di Claerbout due schermi accostati raccontano le storie di due personaggi, un uomo ed una donna: apparentemente senza conclusione, queste narrazioni sono caratterizzate dal solo svolgimento. Col proseguire dei filmati, attraverso un’attenta osservazione, ci si accorge che in realtà le due storie sono ambientate, in momenti diversi, nello stesso luogo: il corso di un torrente di montagna. I due protagonisti, però, non s’incontrano mai, proprio perché le due vicende, esperite da noi in simultanea, sono avvenute in realtà in momenti sfasati tra loro nel tempo.

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