Le cinque vetrate che ospitano i lavori site-specific Let it shine Let it shine. Let it shine. It’s Xmas again! di John Armleder contengono ognuna due principali elementi, uno costituito da una grande tela multicolore a parete e l’altro da un insieme di palle di Natale dalle cromie classiche, che riempiono lo spazio fino a superare il metro di altezza. La chiave di questo lavoro sta proprio nella sua suggestiva semplicità; si viene a formare un dialogo armonico tra le vertiginose altezze delle guglie e il fluire sulla superficie della piazza della miriade di passanti che la popolano ogni giorno, quasi fossero anche loro piccole biglie randomiche che decorano il livello zero e da cui si staglia imponente la verticalità del Duomo.
Buongiorno John, da quanto si trova in città?
«Da un centinaio d’anni!» [ride].
Come si è trovato a collaborare con il negozio La Rinascente per le vetrine di Natale?
«Sono sempre entusiasta quando mi vengono proposti nuovi lavori, ho realizzato questi dipinti ai primi di novembre, ma la collaborazione con Cloe Piccoli, che ha curato il progetto, è iniziata verso giugno. In qualche modo la situazione ha deciso per noi, perché il luogo è estremamente specifico, è uno spazio semi-pubblico. C’è gente che ci passa davanti tutto il tempo. Gli spazi non sono poi particolarmente profondi e dietro si trova il negozio, quindi si tratta di una situazione ibrida».
Si tratta infatti di uno spazio in parte pubblico, ma non c’è un target specifico. Coinvolge turisti, famiglie, ragazzini e via dicendo.
«Questo è uno spazio non totalmente domestico e allo stesso tempo in qualche misura lo è, si trova dentro un edificio ma è fruibile solo dall’esterno di esso. È totalmente ibrido, quindi ipoteticamente si può adattare a ogni tipo di target. Questa è una delle cose affascinanti di questo lavoro».
Non è nemmeno così scontato che il pubblico che fa shopping per le vie del centro sia educato all’arte contemporanea.
«Sì, ma possiamo dire che anche il 90 per cento delle persone che visita i musei non è educato all’arte e questa è la cosa più interessante. Quando conosci bene ciò che osservi, produci molto poco. Quando invece conosci pochissimo ciò che vedi, allora succede molto di più. Forse succede molto di più. Possibilmente succede molto di più».
Quindi fa parte del suo linguaggio giocare con questa logica, con lavori accessibili ma che lasciano anche la possibilità di andare oltre?
«La maggior parte di quello che produco non lo comprendo neanche io se devo essere sincero. E non lo capirò mai. Per esempio quando vai in un museo, sei a fianco a qualcun altro ed entrambi guardate la stessa opera, non sai cosa lui stia cogliendo in quel lavoro e lui non sa che sensazioni provoca in te. E l’opera a sua volta è prodotto di qualcuno che entrambi non conoscete. L’idea che si possano controllare queste sensazioni fa parte di una fantasia, ma noi viviamo nel mondo reale in cui educazione e cultura sono date e sono sostanzialmente delle piattaforme su cui poi le cose accadono, come la vita in generale credo».
In passato ha lavorato spesso anche con oggetti o altri mezzi come la fotografia e la performance. Come ha deciso invece in questo caso di produrre dei dipinti?
«La realtà è che anche quando faccio dei lavori tridimensionali, io comunque li visualizzo in due dimensioni, come appiattiti sullo sfondo. Non è un concetto che vale sempre, ma molto spesso diventano delle immagini».
Quindi anche le palle di Natale in questo lavoro vengono viste come parte di un’unica immagine con i dipinti?
«Sì, e in questo caso è di comprensione molto semplice, perché si schiacciano contro il vetro quindi diventano ancora più facilmente un’immagine. Ma come ogni immagine, come ogni dipinto, questa cosa ha un doppio valore perché è sia un’immagine che un oggetto. Questo è il motivo per cui ho anche lavorato con sculture, che funzionano in questa maniera, mentre invece il dipinto, che è ovviamente bidimensionale, si trova per esempio appeso sopra un altro oggetto in una casa privata. Quindi diventa necessariamente parte di una disposizione con altri oggetti e anche le vetrine funzionano in questo modo: si possono vedere come delle immagini ma anche come degli spazi veri e propri».
Ha considerato le vetrine come se fossero delle cornici contenenti spazio?
«In passato i dipinti sono stati a lungo parte integrante dell’architettura e solo in tempi successivi si è cominciato ad incorniciarli. Poi nella tradizione tardo moderna, o post moderna, la cornice venne tolta per dare al dipinto il significato di oggetto a sé stante. D’altro canto ci sono persone che collezionano cornici e cornici che valgono più del quadro stesso, qualunque cosa questo significhi. La cornice è interessante anche perché fa riferimento a ciò che i dipinti hanno spesso significato nell’immaginario collettivo, considerati cioè come finestre. E ovviamente il riquadro fa parte della finestra: dà la possibilità di vedere ciò che si trova nel dipinto ma non esce mai da questo. Un approccio di questo tipo è sicuramente molto accademico. Così, anche in una vetrina, si ha una doppia cornice: il riquadro della finestra in sé e il riquadro dell’edificio. E forse anche la cornice del contesto».
Le piace lavorare su temi natalizi?
«Molto, davvero! È un’iconografia davvero bizzarra e ibrida. Hai presente il calendario dell’avvento con le finestrelle da aprire? Per il negozio funziona un po’ in questo modo anche se ovviamente non si apre davvero la vetrina. Si guarda nella finestra anziché guardare fuori da essa. Teoricamente dovresti stare nel negozio ad ammirare il Duomo, invece che guardare dal Duomo all’interno di questi spazi».
Quindi ha considerato anche la relazione architettonica tra il Duomo e l’edificio della Rinascente?
«Certamente ci sono l’edificio, che è molto specifico, e il Duomo. Poi c’è però anche il passaggio pedonale, in cui le persone sono parte dell’edificio, ma non all’interno di esso, sotto i porticati. Le vetrine poi sono come una doppia cornice: della finestra in sé e della strada su cui camminano le persone e la finestra può rappresentare una possibile entrata in un ulteriore spazio, che a sua volta è fruibile e semi-pubblico, il negozio vero e proprio».
In questa collaborazione, nessun prodotto commerciale entra a far parte della vetrina, c’è solo arte. Non penso che questa scelta sia dettata da una volontà di imporre il contemporaneo sulla società, ma al contrario che sia un modo in cui si va incontro a un desiderio del pubblico di vedere più arte per la città.
«Scherzo molto sul fatto che nelle vetrine ovviamente si trovano molte decorazioni natalizie, ma solitamente con un abito al centro, invece che un dipinto. Che comunque a me piace. Usare altro nelle vetrine fa più parte di una tradizione anglosassone di grandi magazzini come Harrods oppure Sax: fanno delle vetrine ricchissime per Natale, ma non ci sono tante vetrine che promuovono i prodotti, promuovono piuttosto il negozio in sé».
Guardavo la sua cravatta (con pupazzi di neve e piccole slitte con Babbi Natale) che mi piace moltissimo. Vedo quindi che si trova molto a suo agio nel clima natalizio, mentre in molti non ne apprezzano particolarmente l’aspetto consumistico. Quello che trovo però interessante è che riesce a unire tutti questi aspetti in un modo molto leggero, il suo approccio parla più di godere della bellezza dell’atmosfera natalizia.
«Il contesto culturale in cui viviamo è molto sintomatico perché non conosciamo i motivi per cui ci comportiamo in determinati modi. Anche l’iconografia del Natale non ha nulla a che vedere con il tema originale, che dovrebbe essere la nascita di Cristo. Questa situazione ibrida che si viene a creare mi colpisce moltissimo. Per esempio, in ogni cultura c’è questo dolce che si chiama Millefoglie e che è composto da molti strati. Sono sempre stato affascinato dal fatto che si volesse creare un gusto tramite l’accumulo di diversi gusti. Se poi hai una Millefoglie e la vuoi mangiare, ovviamente hai bisogno di tagliarla, ma non ci si riesce mai perché si rompe spargendosi ovunque. Quindi, pensi che potresti girarla, cosa che però non dovresti fare perché mangiarla in quel modo non è affatto elegante. Tutte queste cose fanno della Millefoglie un tipo di dessert veramente poco pratico. Ecco, io adoro questo tipo di catastrofi non pianificate che a modo loro però sono pregne di significato».
Lavora spesso anche con la musica, o con strumenti. La musica è una componente importante del suo lavoro?
«Sì anche se ancora non so leggere la musica. Anni fa ho fondato con mio figlio e Sylvie Fleury un’etichetta discografica che si chiama Villa Magica Records, poiché vivevamo nella casa di un mago che sotto Natale decoravamo esageratamente. Quindi quando abbiamo deciso di aprire Villa Magica, la nostra intenzione era di capovolgere il normale funzionamento delle etichette discografiche. Ovviamente ora non hanno lo stesso potere di un tempo, specialmente nel contesto anglosassone, ma solitamente, prima di firmare con una major, sul contratto veniva specificatamente indicato che si era tenuti a fare anche una canzone di Natale. Al contrario Villa Magica Records invita gli artisti a fare degli album di Natale, così poi se vogliono possono anche registrare qualcos’altro durante l’anno. Anche per il lavoro alla Rinascente c’è musica ovunque. A dire il vero è proprio un programma per cui la musica parte quando qualcuno passeggia davanti alle vetrine. Ma non è un lavoro di Villa Magica, è una playlist della Rinascente».