05 maggio 2017

L’intervista/ Kader Attia

 
RIPARARE L'UMANITÀ
Confronto con l'artista franco-algerino che ci svela il suo pensiero sui pericoli della modernità, prima della Biennale

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Il pensiero di Kader Attia, affilato come gli specchi nelle sue opere, complesso come i labirinti delle sue installazioni, corre tra il presente e la storia con una critica incalzante e una vitalità straordinaria. Ma è dal 2012, con la presentazione dell’installazione The Repair a Documenta 13 che il suo lavoro sembra aver trovato una dimensione sempre più lucida, potente ed empatica per l’espressione della sua ricerca. 
L’occasione per porgli alcune domande avviene prima di vedere la sua nuova installazione nella mostra “Viva Arte Viva” curata da Christine Macel per la 57esima Biennale di Venezia e dopo aver visto il film Reflecting Memory, con il quale Attia ha vinto l’ultimo Prix Marcel Duchamp. 
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Negli ultimi anni nelle tue opere vi è una grande presenza di oggetti che incontriamo nei musei di antropologia. Come è iniziata questa tua incursione nella storia?
«Ho visitato molti musei e collezioni etnografiche, ho visto archivi e fatto ricerche. Ti devo dire che gli artisti hanno un rapporto con l’etnologia, e in particolare con gli oggetti, che è molto diverso da quello dell’antropologo, anzi forse li disturbiamo. L’artista può accedere ad esperienze che hanno a che fare con la magia alle quali lo spirito scientifico non può avere accesso. Pensiamo ai surrealisti che hanno capito come attraverso l’arte potessero accedere più facilmente a un’idea immateriale del mondo, non razionale, al quale simbolicamente si rifanno gli oggetti. Gli antropologi invece studiano e contestualizzano gli oggetti secondo regole che hanno precedentemente stabilito. Questo pone delle questioni, è un modo post-colonialista di organizzare il pensiero e di catalogare, significa pensare al posto di qualcun altro. Ciò che mi interessa è togliere i limiti che il pensiero occidentale e razionale pone agli oggetti. Le maschere e i feticci ci dicono che non ci sono frontiere tra reale e virtuale, tra la morte e la vita, che è possibile uscire dalle categorie predefinite a posteriori. Per questo mi interessa chi, attraverso la psicanalisi, lavora sul simbolismo degli oggetti, un lavoro che ne restituisce tutta la dimensione irrazionale, senza mettersi al posto degli altri».
Nel tuo lavoro parli di oggetti riparati e, attraverso immagini e parole, anche di corpi riparati… 
«Da quando esistiamo siamo vite riparate perché l’esistenza è una ferita. La prima cosa che fa un bambino quando nasce è piangere. Il pianto come il grido sono ferite del silenzio, la musica è una ferita del silenzio, le onde spostano l’aria e producono un suono che a sua volta è uno spostamento che rompe il silenzio. La riparazione è prima della ferita e anche il viceversa, dunque tutto è riparazione, tutto è ferita. Nella mia pratica la presenza della ferita è qualcosa di reale ma anche qualcosa di metaforico perché la psiche crea immagini».
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Sei cresciuto tra l’Algeria e le banlieue parigine, oggi vivi e lavori tra Parigi, Berlino e Algeri. Questa idea della riparazione ha a che fare con la tua esperienza personale, con la tua storia familiare?  
«Ci sono molti elementi che possono aver contribuito a ciò, ma non solo e non tanto nella mia esistenza. Elementi legati alla mia origine o alla storia dei miei genitori, ma soprattutto alla storia delle generazioni che mi hanno preceduto. Siamo il prodotto della nostra storia e dalla sua trasmissione. Ma è importante spiegarti che per me la riparazione è molto più che una parola, non si tratta solo di rimediare qualcosa di rotto o incollare un oggetto, è un passaggio da uno stato all’altro. Nella storia della vita e dell’umanità tutto è riparazione perché tutto è il risultato di un’evoluzione. Guarda questo bicchiere in plastica, forse era un bicchiere in vetro e prima in legno e prima era un corno, e forse prima era un essere e prima ancora una foglia che riusciva a raccogliere la pioggia…In ogni esistenza c’è un istante di riparazione che si accompagna ad una difficoltà, una debolezza, un’incapacità o una frattura. L’evoluzione sottesa alla riparazione è qualcosa di fondamentale da comprendere e la riparazione ne è passaggio necessario».
La consapevolezza e la riflessione su questi argomenti è una “pratica di riparazione”?
Porre attenzione all’idea di ciò è l’atto culturale della riparazione. Il concetto di evoluzione è più vasto. Allo stato naturale il processo di evoluzione esisteva già prima che l’essere umano si ponesse queste questioni. Nella natura ci sono state tappe successive, quando Darwin o Russel Wallace descrivono l’evoluzione della specie indicano che l’organismo deve adattarsi al suo ambiente – pena la morte e l’estinzione – e che sopravvive la specie in grado di garantire una varietà.  Gli esseri umani invece vivono la modernità come una superiorità razionale nella quale l’intelligenza, l’invenzione e la competitività li pone a un livello superiore. Non è così, l’evoluzione è solo un processo della vita dove le specie, mai stabilizzate, evolvono in permanenza. L’essere umano non compie altro che un processo mimetico nell’universo e la riparazione esiste da sempre».
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Ma la riparazione dal punto di vista culturale può indicare un impegno, un’attitudine e uno sguardo diverso sulla realtà? 
«Quello che dici è corretto, ma non è più attuale. Nella contemporaneità non si recupera ma si getta, si elimina, si dimentica. Le società primitive riparavano i loro oggetti, l’eredità del XX secolo è la perdita dell’atto della riparazione. In generale ieri come oggi si può riparare per due diversi fattori: l’economia e il valore affettivo. Ancora oggi si sceglie di riparare un vestito che si è pagato molto o un bijou a cui si è affezionati; egualmente, nel passato i due diversi atti di riparazioni erano quelli su un oggetto e su una maschera. Certamente la dimensione affettiva della riparazione è molto importante, ma quando penso e lavoro sulla riparazione sono interessato ad un concetto che è più complesso. Come lo è la parola che lo descrive, densa di significati: appropriazione, ri-appropriazione, trasformazione, traslazione, reenactment, restaurazione, ricostruzione, rievocazione. Vi è sempre il concetto del re, cioè del recupero, della ripresa; c’è un tempo e uno stato da rimettere in gioco».
Come rappresenti questo concetto nel tuo lavoro?
«Gli esseri umani hanno concepito due modi di riparare: quello mimetico e quello della maschera con le cuciture visibili, dove la ferita è importante quanto l’oggetto. Come nel mio piatto ricucito: rappresenta l’immagine idealizzata della vita borghese con tutte le sue false gioie ma insieme possiede un aspetto toccante per noi che abbiamo visto quel piatto nelle case di famiglia. Guardarlo significa registrarne le ferite, una realtà toccante che dona un tempo all’oggetto L’oggetto è come macchina del tempo, come i nostri corpi. Il capitalismo neo liberista ci dice tutto quello che dobbiamo fare, dalle creme allo sport alle pillole della longevità, tutte cose che spostano il nostro corpo dal reale al virtuale, come virtuale è la nostra immagine nello specchio. Nelle mie opere, come nelle società tradizionali, nel piatto così come negli specchi cuciti, riparo mostrando la cucitura, cioè la ferita e quindi la sua storia. C’è una vita e un invecchiamento: la modernità nega tutto questo inventando un’altra storia, quella della negazione. Negare le ferite significa lasciarle aperte, per questo lavorare sulle società tradizionali che, attraverso i loro oggetti mostravano le ferite, è la strada per un pensiero critico sul mondo contemporaneo negazionista».
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Siamo arrivati a Reflecting Memory, il film che hai appena concluso
«Ho viaggiato, intervistato e ascoltato persone diverse con lo stesso risultato: le ferite aperte domandano una riparazione, le persone o le comunità che sono state vittime di genocidi vogliono una riparazione che ha poco o niente a che vedere con la vendetta. C’è un fantasma che chiama la riparazione e sino a quando questa non avverrà, sino a quando non saranno stati giudicati quegli anni e quelle azioni, la ferita continuerà a chiamare».
Nel film fai riferimento al fenomeno dell’arto fantasma, patologia che colpisce chi ha perduto una parte del corpo e consiste nella sensazione di persistenza di un arto dopo la sua amputazione, cioè nella reale percezione di un dolore proveniente da una parte di sé inesistente
«Sì, quello che mi interessava era capire perché l’arto fantasma ci continua a chiamare, capire quella dimensione traumatica che va a creare un risentimento, cioè il dolore. Si tratta di un fantasma, un dolore che chiama una riparazione.  Tutti gli storici dello schiavismo, del colonialismo, dei grandi eccidi della storia a cui ho domandato mi hanno risposto che il fenomeno dell’arto fantasma è una metafora perfetta per descrivere la perdita di una comunità. Nel film si racconta questo».
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Le risposte che hai ricevuto sono diverse fra di loro
«Sì, e si tratta di qualcosa di molto importante. C’è chi ha portato l’esempio della vecchiaia, della perdita della memoria a breve e della rinascita di una memoria lontana che rinnova antichi dolori. C’è chi ha parlato del silenzio per non trasmettere l’orrore, ma anche dell’angoscia che il silenzio travasa nelle generazioni che seguono, come forse è stato nella mia storia. Diventare adulti in questo silenzio significa portare un lutto che comunque rende necessaria la riparazione, perché il lutto continua a rinnovarsi, come quello per una persona cara che è andata lontana o che non c’è più. Noi continuiamo a sentirla vicina, accanto a noi. Qualcuno ha offerto delle strade di riparazione, come l’affetto e la cultura, qualcuno invece mi ha detto che il dolore, il lutto che ci si porta appresso è come una profonda melanconia che non può essere riparata. Il mio film si chiude su due cammini diversi, credo sia necessario ammettere che non tutto è comprensibile, condivisibile o riparabile, che non ci sono certezze. Ma entrambe le direzioni si oppongono all’arroganza di chi crede che attraverso la razionalità della modernità tutto possa essere negato o controllato».
Paola Tognon

Sopra: Kader Attia, The Repair, 2012 diptych of 80 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana –  Photo by: Sebastiano Pellion di Persano 

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