L’intervista/ Marinella Senatore

di - 11 Maggio 2018
Una brezza d’entusiasmo contagioso ha percorso tutta Italia per mesi, coinvolgendo 1.800.000 bambini, 66.000 classi e 8.000 scuole: è il progetto di Marinella Senatore WE the KIDS, che il 9 maggio ha portato a Venezia, in piazza San Marco, oltre mille bambini delle scuole aderenti per dare vita a una gigantesca coreografia corale. Le classi hanno trasformato visivamente la piazza seguendo le coreografie del collettivo ESPZ (Elisa Zucchetti e Nandhan Molinaro) su musiche scritte ad hoc dal compositore e pianista Emiliano Branda. La spettacolare performance collettiva ha celebrato la conclusione della sesta edizione di Kids Creative LAB, un progetto della Collezione Peggy Guggenheim e di OVS dedicato ai bambini delle scuole primarie d’Italia, che dal 2012 a oggi ha coinvolto oltre 5 milioni di bambini.
Abbiamo incontrato Marinella Senatore, per approfondire questa avventura e la sua pratica artistica, che attraverso progetti corali lavora sullo stare insieme, sullo sviluppo personale e sui sogni di ciascuno.
Un commento a caldo sulla performance che ha concluso il progetto WE the KIDS…
«La performance è stata emozionante, a tratti commovente e, anche se avevamo previsto tutto fin dei dettagli, è riuscita a sorprenderci e andare ben oltre le nostre aspettative, l’entusiasmo era palpabile. La serietà e la concentrazione con cui i bambini si sono presentati in piazza San Marco e, attraverso il corpo e il movimento, hanno raccontato le loro storie – anche di inclusione e di costruzione di comunità, benché temporanee – sono state a dir poco avvincenti. Io stessa, a un certo punto, ho desiderato ballare con loro perché eravamo un corpo unico: è la magia che riesce a creare la danza anche quando è fatta da amateur, da non professionisti, perché il corpo è un veicolo potentissimo di comunicazione. Ha preso vita uno sforzo collettivo incredibile, che costruisce legami. La soddisfazione, l’estrema emancipazione e l’orgoglio dei partecipanti sono stati straordinari».
Marinella Senatore, WE the KIDS, foto di Davide Carrer
Come è nato il progetto “Scendi in piazza con WE the KIDS” e che cosa ti aspettavi dalla questa performance?
«WE the KIDS è un progetto che con la Collezione Peggy Guggenheim e OVS abbiamo voluto rivolgere alle scuole (come tutti i precedenti progetti di Kids Creative LAB, nella cui scia si inserisce), ma è aperto alle famiglie e ai contesti sociali dei bambini, perché i miei progetti non sono mai ristretti a un’unica categoria. Per la performance collettiva finale abbiamo scelto piazza San Marco, un luogo iconico, dall’impatto immaginativo molto forte. Quello che desideravo per questa performance, come per tutte le altre, è basato sui desideri delle persone, sull’emancipazione dei partecipanti, sul loro empowerment. Questo avviene durante l’intero lavoro: dal momento in cui una persona sceglie di partecipare a un’azione corale di grande portata e di mettersi in gioco – spesso anche usando un linguaggio per la prima volta, come, in questo caso, la coreografia, arricchita dal porre in dinamica delle parole – accetta una sfida che la porta a lavorare su se stessa e sulle proprie aspirazioni e, in maniera più o meno consapevole, questo processo personale si estende, all’ambiente familiare e al background del partecipante. Quello che succede durante la performance è la celebrazione di tutti questi risultati, è il grande momento di sentirsi sicuri e a proprio agio nel fare qualcosa, di portare a termine ciò che si è iniziato. La performance finale è importante quanto il processo che la precede, che termina solo quando si esegue la final restitution».
Marinella Senatore, WE the KIDS, foto di Riccardo Ciriello
Che differenza c’è tra il modo in cui operi facendo nascere i progetti performativi con le comunità e quello messo in atto per Venezia, in cui le classi coinvolta si sono preparate separatamente per la coreografia, senza la tua presenza fisica?
«A parte la mia piattaforma Estman Radio – una radio podcast -, non ho progetti che prevedono la mia assenza fisica dalle comunità via via coinvolte, quindi WE the KIDS è stato una grande sfida diversa dal solito a cui, dopo tanti anni di esperienza, mi sentivo pronta. Il fatto di relazionarmi con una comunità – anche se tale solo per un momento circoscritto – di dimensioni così vaste unicamente attraverso le informazioni contenute nell’opuscolo e nel dvd che all’inizio del progetto sono stati distribuiti a tutti gli insegnanti delle classi che hanno aderito e, nei mesi successivi, mediante dei video nei quali io parlavo, è stato come agire attraverso “un’espansione di me” che doveva lavorare di bocca in bocca, di orecchio in orecchio. La genesi e il concept del progetto sono miei, ma tutta la concettualità e il suo sviluppo pratico sono stati veicolati dagli insegnanti, poi sono entrati in gioco i bambini, che a loro volta l’hanno manipolata e reinterpretata, e spesso si sono fatte coinvolgere anche le loro famiglie. Mi ha fatto molto piacere percepire l’entusiasmo di insegnanti e genitori attraverso la ricerca di un feedback diretto con me o nel postare video sul sito del progetto. Questa trasformazione e questo trasferirsi di situazioni mi ha appassionato tantissimo».
Marinella Senatore, WE the KIDS, foto di Francesca Bottazzin
In vari contesti ti sei definita come “attivatrice”, puoi approfondire questa tua posizione?
«Mi piace pensarmi come figura scatenante di un qualcosa che non si sarebbe fatto se io non avessi provato ad accendere questa miccia. Attivare è dare degli input che possano essere la chiave di lettura per aspetti o processi che vanno al di là delle mie conoscenze stesse, ma che, soprattutto, possano essere fattori che aprano i partecipanti alla curiosità e determinino l’emancipazione della persona, anche da me e dai miei limiti. Io non voglio, infatti, che i partecipanti ai miei progetti siano d’accordo con tutte le mie idee o che eseguano pedissequamente i miei suggerimenti: proprio per questo motivo è molto raro che io li esorti a fare una cosa rispetto a un’altra, non do loro indicazioni, ma lavoro con loro, che è molto diverso. A me non interessa la produzione tout court di un qualcosa o che qualcuno porti a compimento una mia idea o un mio desiderio, cerco, al contrario, di attivare dei processi corali, di creatività condivisa».
Come riesci a raggiungere questo obiettivo lavorando con numeri di partecipanti altissimi? Il totale di persone che dal 2006 a oggi hai coinvolto nei tuoi progetti è impressionante: a WE the KIDS hanno aderito quasi 2 milioni di persone e già prima, con The School of Narrative Dance, avevi superato gli 80mila partecipanti a diversi progetti in 23 Paesi. Che rapporto hai con queste cifre?
«Tutti credono che a me interessi il numero dei partecipanti, invece è soltanto una conseguenza. Naturalmente sono stata sempre molto soddisfatta e sorpresa dal grandissimo numero di partecipanti alle mie proposte, ma a non è il mio scopo, non ho l’obiettivo di battere nessun record. Lavoro sull’individualità, a me interessa la processualità e mi piace la coralità, che è connaturata al mio background che deriva dall’orchestra e dal set di cinema. Proprio perché a me non interessano la massa e il concetto di massa, io lavoro sulla fortissima individualità connaturata alle grandi realizzazioni corali. Nel cinema, ad esempio, ci sono il direttore della fotografia, il costumista, lo scenografo e via dicendo, sta al regista farli lavorare in sinergia tenendo presente che queste persone hanno un gusto, un background, una storia e anche uno stile diversi, che possono essere dissonanti o in contrasto con quello degli altri, ma che allo stesso tempo possono armonizzarsi. Nella coralità, quindi, non c’è l’annullamento dell’individualità, ma la sua valorizzazione».
Marinella Senatore, WE the KIDS, foto di Davide Carrer
Nel video di presentazione di WE the KIDS affermi che questo tipo di progetti lavorano sullo “stare insieme”, su “come stare insieme” e sull’autostima dei partecipanti…
«Io credo che uno dei più grandi problemi di oggi sia non solo stare insieme, ma come stare insieme. L’ho detto in molte interviste: ritengo che sia un problema politico di estrema rilevanza e che gli artisti non possano dare risposte, ma suggerire visioni, questo per me è fondamentale. Anche se ho un’anima da attivista e lo sono, c’è una differenza tra l’attivismo e l’arte: io faccio arte, sono un’artista che lavora in una maniera rispettosa e onesta e quindi l’opera d’arte mi interessa, e mi accorgo che interessa profondamente anche ai partecipanti, loro hanno bisogno dell’opera d’arte, del processo creativo e del momento finale. A progetto concluso rimane tutto quello che durante il percorso si è prodotto, possono essere anche dei cambiamenti sociali o personali minimi, microscopici, ma che i partecipanti si portano dietro, in alcuni casi, per tutta la vita. L’evento finale è la celebrazione di tutto ciò».
Dopo Venezia, dove porterai altri progetti nei prossimi mesi?
«Quest’anno c’è tantissimo, abbiamo appena concluso un progetto con tre performance a Villa Medici – Accademia di Francia a Roma e adesso inizia la preparazione per la biennale Manifesta 12, che vedrà un lavoro gigantesco, non solo performativo, che coinvolge numerosissime comunità e che passa per la creazione di una comunità temporanea. C’è, inoltre, una parte del mio lavoro che non si racconta mai: non mi occupo solo di time based art works, ma ho una produzione incredibilmente prolifica di object art based, anche partecipativa, e quindi ho molte fiere, mostre nelle gallerie che mi rappresentano e personali nei musei. In vista ho anche un imponente progetto performativo a Londra, ma è ancora presto per parlarne».
Silvia Conta

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