«Live Arts Week è una forma di evoluzione dell’idea di festival. L’abbiamo definita ‘settimana’ – anche se quest’anno le settimane impiegate sono due – in parte per ammorbidire i caratteri enfatici che la parola festival evoca, in parte come omaggio alla Settimana internazionale della Performance di Bologna che rappresenta un antecedente storico al quale ci siamo voluti riallacciare. Lo abbiamo fatto con un riferimento esplicito nella edizione del 2017, rioccupando la ExGAM, il luogo che la aveva ospitata nel lontano 1977». Attaccano così Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti, le anime di Live Arts Week, il festival dell’arte performativa nel senso più ampio del termine che ha debuttato ieri sera a Bologna.
Che edizione sarà questa ottava? E come è cambiata Live Arts Week nel corso degli anni, e come si inserisce nel panorama nazionale e internazionale?
«Il termine live arts è stato volutamente introdotto da Xing nel 2012, partendo dalla necessità di raccordare due aree di ricerca delle quali ci siamo occupati lungo l’arco degli anni zero: il live media e le performing arts, con due distinti appuntamenti annuali, Netmage e F.I.S.Co. L’evoluzione che stiamo seguendo copre quindi l’arco di un ventennio, ed è su questo spettro che si situa l’edizione del 2019, che stiamo qui presentando. Siamo partiti dalla osservazione di fenomeni che cercavano di ridefinire lo ’spettacolo contemporaneo’ con uno sforzo di molti artisti che, proprio a partire dagli anni zero, ha accorciato progressivamente le distanze disciplinari tra ciò che proveniva dalla danza e dal teatro di ricerca ‘novecenteschi’, e alcune derivazioni dell’arte contemporanea (non solo le performance). Live Arts Week cambia di edizione in edizione cercando di fare il punto sulla situazione attuale: partendo dalla nostra sensibilità e approfittando del contesto operativo, per testare di volta in volta forme diverse del modo dell’accadere. Possiamo dire che stiamo costruendo un catalogo di ipotesi e di prototipi, dei quali alcuni ritornano con varianti evolutive, altri decadono, altri ancora ci si presentano con caratteri inediti.Per ciò che concerne le live arts più in generale, possiamo dire che utilizziamo il termine un po’ come il prospettivismo è stato adottato dalla nuova antropologia, ossia non come categoria esplicativa, ma come concetto generativo. Questo ci consente di coprire pertanto una quantità estremamente vasta e varia di fenomeni, senza dover fissare dei criteri assoluti. È in ogni caso significativo che il coordinamento internazionale forse più importante, al quale siamo stati invitati ad aderire nel 2018, si sia battezzato Corpus (ideato da If I can’t dance, I don’t want to be part of your revolution di Amsterdam, e di cui fanno parte istituzioni di tutto il mondo, dalla Tate di Londra al Carriageworks di Sydney), suggerendo forse che il corpo sta al centro del sistema di interessi culturali, artistici, sociali e non solo. Volendo aggiungere una piccola nota di carattere, dal punto di vista di Live Arts Week, nel 2019 dovremmo parlare più che di corpo, di uno psico-soma, anche per superare una delle tante varianti del dualismo (natura/cultura, etc.) che sono attualmente oggetto di critica da parte di molte discipline umanistiche contemporanee».
Michele Rizzo, Spacewalk, courtesy of Michele Rizzo
Chi sono gli artisti invitati? Come sono stati selezionati/in base a quali criterio li avete invitati?
«Ci sono artisti internazionali mai o poco visti in Italia come il coreografo radicale Marcelo Evelin dal Brasile con il suo gruppo Demolition Incorporada, il regista e designer inglese Simon Vincenzi, il duo svedese di sound artists Ellen Arkbro e Marcus Pal o l’illusionista vocale Stine Janvin. C’è una veterana della computer music come la compositrice, filosofa e matematica Catherine Christer Hennix con un progetto speciale, una sorta di dream house che si riallaccia agli esperimenti sono-spaziali di La Monte Young. C’è Sorour Darabi, performer iraniana/o, il coreografo basato ad Amsterdam Michele Rizzo accompagnato dai suoni di Billy Bultheel. C’è anche una schiera di artisti italiani poco conformi allo schematismo disciplinare: sono attraversatori di linguaggi e pratiche incluse le subculture, un po’ magick e un po’ minimalisti come Barokthegreat, i misteriosi Doro Bengala, e Gelateria Sogni di Ghiaccio & friends (Filippo Marzocchi, Mattia Pajè, Giovanni Rendina, Andrea Magnani, Daniele Guerrini), che tra l’altro sono artisti-curatori basati a Bologna, con cui condividiamo l’approccio al fare artistico. Le ragioni della loro presenza in questa edizione sono diverse. L’organicità delle scelte curatoriali è costituita da molti fili e motivazioni. Per dirne alcune: introduciamo a Bologna e in Italia nuove personalità; investiamo sui ritorni di alcuni artisti che sono maturati mostrando l’evoluzione di un percorso e ribadendo la loro validità; ci sono i grandi vecchi (s)conosciuti che dialogano con una nuova generazione di artisti. Questo tessuto di ‘buone ragioni’ da ‘bravi professionisti’ si sovrappone all’intuizione, alla chiara sensazione che qualcosa manca, e che è importante lanciarsi. Lanciarsi affiancandosi ad artisti fuori classe, personalità che esprimono urgenze, manie, devozioni. E l’edizione del 2019 è tellurica. Questa posizione l’abbiamo riassunta in una sintesi, sempre valida: “Live Arts Week dà spazio ad atletiche esistenziali: non antepone l’arte agli artisti, espone a forme di sensibilità e idee, accoglie opere ibride e poliglotte, ospita singolarità umane”».
Gelateria Sogni di Ghiaccio & friends, C’è un inganno nel crepuscolo 2, courtesy of the artists
Live Arts Week VIII si sviluppa in 10 tappe: in che cosa consistono queste tappe? Che cosa le accomuna? Come avete selezionato gli spazi coinvolti?
«Le tappe fornisco la possibilità di costruire un percorso, molto semplicemente, che conduce da un luogo a un altro, senza nessuna gerarchia: si puo’ andare da qualsiasi punto a qualsiasi altro punto. Ciò che le accomuna è esattamente il motivo per cui sono state adottate, ossia la loro funzionalità in relazione all’opera/oggetto che devono ospitare. E’ stato fatto un lavoro in stretta relazione con gli artisti, adattando e a volte anche forzando, ma in ogni caso nel tentativo di costruire, inaugurare, una serie di luoghi legati al momento. Le tipologie sono quindi molto diversificate. Ciò che ci è più piaciuto è stata una ricerca dell’interstizio, dovuta al fatto che Bologna, come molte altre città europee, si sta saturando per via del processo di gentrificazione che rende sempre più raro lo spazio vuoto. Ci troveremo spesso all’interno di ruderi, o cantieri, o luoghi in stato di abbandono. Sapendo che non durerà per molto e che dovremo ripartire da zero l’anno successivo».
Che rapporto si è instaurato, negli anni, tra Live Arts Week e la città di Bologna?
«Possiamo parlare del nostro rapporto con Bologna, ma non viceversa (come si fa ad interrogare una entità di questo tipo? le città sono iperoggetti, in un certo senso); mai come in questo momento la viviamo in maniera stratigrafica, è un corpo che scaviamo, attraversiamo come il grillo-talpa di Giorgio Manganelli. Questo luogo è, come ogni altro, un luogo immaginario».
Silvia Conta