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19
luglio 2014
L’odore forte dell’India
Progetti e iniziative
Vista, udito, olfatto: una mostra da esplorare con tutti sensi, ma anche emotivamente. Così si propone la personale di Chittrovanu Mazumdar di scena al Macro. Un’esposizione che satura lo spettatore. Il quale, come chiunque si trovi in India, può respingerla o abbandonarsi ad essa. E in questo caso la sorpresa sarà intensa. Tra video, installazioni profumate e il buio. Forse per scoprire ciò che non è stato detto
Il primo elemento di stupore, quello che non ti aspetteresti mai, è di entrare in un museo parecchio sofferente, quale purtroppo è oggi il Macro oggi, e di vedere una mostra così imponente. “And what is left unsaid…”(fino al 20/9) in realtà, più che una mostra, è un’esperienza. Entrare nel grande spazio che il museo ha dedicato alla personale di Chittrovanu Mazumdar (Parigi, 1956), vuol dire entrare in un’altra dimensione in cui il buio accecante avvolge lo spettatore. Un buio interrotto solo da macchie di colore forti – rosso sangue, giallo oro, bianco immacolato – che fuoriescono da enormi monoliti di acciaio, come ricordi che emergono dalla memoria, come ferite in corpi inermi. In questo buio, bisbigli, suoni, musiche, si sovrappongono come ricordi che affollano la mente, spingendo lo spettatore ad esplorare ogni angolo della sala. E poi l’odore. Un profumo forte, intenso di rose a completare l’immersione in questo mondo onirico.
Vista, udito, olfatto sono i sensi che vengono ammaliati, storditi quando si esplora l’India. Il coinvolgimento dei sensi nel lavoro di Chittrovanu Mazumdar, quindi, non è solo il richiamo all’esperienza individuale, ma anche un esplicito riferimento ad un Paese nel quel affondano le sue radici culturali, quell’India dalla quale il suo lavoro non può prescindere, tanto quanto non può prescindere dalla componente europea della sua cultura.
Nato a Parigi da madre francese e padre indiano – Nirode Mazumdar, uno dei più affermati artisti dell’avanguardia del suo tempo, fondatore nel 1943 del Calcutta Group – Chittrovanu Mazumdar ha avuto accesso a due differenti culture ed è dallo scambio di queste che nascono i suoi lavori. La commistione è al centro della sua opera e non riguarda solo le culture occidentale ed orientale, ma anche la varietà di materiali che usa per produrre la sua arte – dal legno alla cera, dall’oro all’acciaio, dal catrame alla carta, dal suono alla luce – ed i media attraverso i quali si esprime: video, musica, fotografia.
Questa mostra è frutto dell’incontro della curatrice Paola Ugolini con la gallerista indiana Malini Gulrajani: «Quando l’ho conosciuta circa un anno e mezzo fa nella sua galleria di Dubai – racconta Ugolini – Malini Gulrajani mi ha presentato Chittrovanu Mazumdar che esponeva il lavoro delle quattro video box (presente nella mostra al Macro). Chittrovanu mi ha raccontato la genesi di quell’opera legata alla sua infanzia in un villaggio fuori Calcutta. In questo villaggio, privo di qualsiasi attrazione, c’era un uomo che possedeva una scatola ottica dentro la quale i bambini potevano guardare delle immagini in movimento accompagnate da una musica sempre uguale. Quella scatola aveva un potere immenso, quello di liberare la fantasia dei bambini che, guardando in quel foro, inventavano storie straordinarie. Mazumdar ha ricostruito quella scatola ottica, ne ha fatto dei contenitori di immagini prive di trama che evocano ricordi, sensazioni, emozioni e che lasciano all’osservatore la possibilità di inventare la propria storia.
«Ho amato molto la poesia del lavoro di Mazumdar – continua Ugolini – e ho desiderato portare in Italia questo artista che all’estero gode di grande stima, ma che nel nostro Paese non aveva ancora mai esposto. Ho pensato al Macro come ad uno spazio in cui il lavoro di Chittrovanu avrebbe potuto esprimersi al meglio e quando ne ho parlato con Malini Gulrajani – grazie ai cui sforzi economici la mostra è stata possibile – ha raccolto con entusiasmo la proposta. Lo spazio molto grande messo a disposizione dal museo ci ha consentito di esporre i lavori più imponenti di Chittrovanu Mazumdar e di realizzare una mostra che permette allo spettatore di apprezzarne interamente l’opera, la complessità ed anche la coerenza del suo lavoro», conclude Ugolini.
Complessità e coerenza che si snodano nel percorso della mostra che dal nero dominante della prima sala, in un’atmosfera sempre più alla Lynch, ci porta nel rosso porpora della seconda, in cui decine di immagini rinchiuse in scatole di acciaio sono sospese nell’aria: è il cimitero della memoria. Qui sembra non esserci più vita, tutto è immobile, i ricordi sospesi sono rinchiusi, congelati fino a quando il suono caldo, penetrante delle campane proveniente dall’installazione sonora in fondo alla sala, non squarcia il silenzio inneggiando in un crescendo alla vita.
Manifesto, una installazione inedita composta da nove pezzi realizzati in ferro, rame, piombo e legno che rappresentano un libro illeggibile, non è mai stata presentata altrove ed è forse l’opera che meglio esprime il senso della mostra. Perché “And what is left unsaid…” mette in scena il non detto, il dolore legato alla morte della madre – che ha ispirato quest’opera, non a caso il più occidentale dei lavori presenti – che non si può esprimere.
Il percorso ci conduce infine nell’ultima sala dove ci attende un altro lavoro immersivo, una video-installazione a quattro canali che proietta su ogni parete immagini in sincrono sfalsato. È un lavoro poetico e tecnologico nel contempo, che riproduce il meccanismo della memoria in cui le immagini non ci appaiono necessariamente in una logica sequenziale. Immagini di luoghi e persone che ci circondano e ci intrappolano. In quest’opera il non detto è la dimensione claustrofobica dei ricordi e della memoria, è l’angoscia che si esprime nell’alba blu di Calcutta, che non riesce ad essere catartica.
Si esce dalla mostra di Chittrovanu Mazumdar con la sensazione di aver vissuto un intenso viaggio emotivo e fisico, di essere entrati in un mondo sconosciuto fatto di infinite possibilità e sorprese e di avervi partecipato con tutti i sensi. Si avverte di essere stati al centro di questa esperienza alla quale ognuno avrà dato un senso diverso. Perché nel lavoro di Mazumdar non c’è narrativa, non c’è un’unica storia da raccontare, bensì suggestioni e associazioni da trovare. Non ci sono neanche i titoli delle opere, tutti i lavori sono Untitled per liberarli da qualsiasi interpretazione imposta dall’artista. E permettere allo spettatore di leggere l’opera come vuole, inventando un titolo per i lavori che preferisce.
La scelta di Malini Gulrajani, che con il suo impegno economico ha reso possibile la mostra e ha creduto in un museo in via di estinzione, conferma che all’estero il Macro gode ancora (probabilmente per poco) di una reputazione alta, frutto del lavoro espositivo degli anni passati. Vogliamo sperare che questa mostra serva a ricordare le grandi potenzialità di questo spazio che non può e non deve diventare l’ennesimo contenitore di esposizioni ed eventi privati: la capitale di un Paese che sostiene di voler puntare sulla cultura per crescere, merita molto di più.