29 novembre 2012

Luigiliberaluce

 
"AndersenSennoSogno" è il titolo della bella mostra di Luigi Ontani all'Andersen di Roma. Un museo che è una casa d'artista, con grandi marmi inquietanti e disegni bizzarri. Elementi con cui Ontani ha inscenato un contrappunto d'autore attraverso opere minimaliste, quasi "boettiane" degli anni '70, le tante immagini di sé e del proprio volto fino alle maschere colorate di oggi. Il risultato è un viaggio luminoso e liberatorio nell'arte

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Luigi Ontani è la prova concreta che il binomio arte-vita, tanto caro ai Futuristi, non è stato una mera utopia intellettuale ma una possibilità estetica e concettuale di straordinaria potenza immaginifica. Fare di se stesso un’opera d’arte, un’inimitabile icona di stile, oltre che l’interprete unico di moltissime opere concepite con uno slancio creativo così sperimentale da superare la modernità, è stata da sempre l’ironica e intelligente cifra stilistica di un artista che con il suo corpo ha attraversato i secoli e le epoche.

Ontani è un rivoluzionario che ha fatto del colore e dell’ironia un vessillo contro il conformismo e l’omologazione, un precursore, forse inconsapevole, di molti linguaggi artistici contemporanei, uno sperimentatore che già nei primi anni Sessanta con gli “oggetti pleonastici” confondeva le acque dei generi: né sculture, né oggetti di design, né giocattoli ma, micro-monumenti, oggettini di gommapiuma o cartone ondulato utilizzati come protesi corporee con intenti chiaramente ludici. I colori utilizzati erano tre, rosa, azzurro e giallo, sorta di cromatiche didascalie, per indicare che i generi sessuali sono tre: femminile, maschile e androgino. Sono anni di grande sperimentazione realizzata con molteplici linguaggi, i fiammiferi catalogati con le loro bruciature, gli elastici, i gessetti colorati e il cartone ma, al centro c’è sempre lui il corpo, l’aurea misura di tutte le cose, il medium previlegiato per rappresentare il pensiero, l’attivatore di senso più potente e straniante.

Con il suo corpo, con la pittura, il disegno e la fotografia Ontani ha creato quella complessa semplicità rappresentativa che, trascendendo di volta in volta tutte le etichette di genere, gli ha permesso di andare oltre scavalcando epoche e generi e quindi, paralizzando in un curioso stupore, l’incasellamento critico. Quello di Ontani è un viaggio che parte da lontano, «dai bauli dell’infanzia», come scrive Luca Lo Pinto nel testo di presentazione della sua ultima personale, da lui magistralmente curata, al Museo Andersen (fino al 24 febbraio), un viaggio in solitario fatto su un tappeto volante o a dorso di un elefante o sulle ali di un angelo, compiuto per il desiderio dell’Arte.

Fra gli anni Sessanta e Settanta quando le sperimentazioni di Body Art e le performance erano al culmine del loro successo critico, Ontani si è auto-rappresentato in una serie di tableaux-vivants in cui la nudità era un mezzo per superare l’ “hic et nunc”, in un desiderio di viaggiare nel tempo e nell’arte senza barriere spazio-temporali. Dalla rappresentazione della sua maschera facciale, usata come una sorta di macchina del tempo per interpretare figure mitiche come Leonardo, Raffaello, Dante o Pinocchio, Ontani è partito per un altro viaggio, quello nella storia della maschera, aggiungendo maschere alla sua maschera, prima in rapporto alla commedia dell’arte e ai luoghi in cui esponeva le sue opere, (Pantalone a Venezia o Pulcinella a Napoli) poi, andando alla ricerca di quei luoghi in cui i folklori e i rituali resistono, nonostante la globalizzazione e il turismo di massa. Luigi Ontani stesso è un “Ibridolo” o meglio un demiurgo dell’ibrido che riesce a fondere con coerenza stilistica stimoli culturali e suggestioni estetiche anche molto distanti fra loro, in una sorta di sincretismo religioso, folkloristico, culturale e immaginifico che diventa “altro da sé”.

Luigi Ontani è come un albero di Ontano che si nutre di mitologia, i cui rami si protendono per attraversare il mondo, quel mondo che si guarda con gli occhi della mente, un mondo, onirico, colto, spiazzante e ironico in cui l’artista, come un bambino adulto, gioca con serietà con quelle immagini che diventano opere capaci di portarci altrove. Anche Hendrik Christian Andersen era un sognatore, affascinato dalla bellezza classica dei marmi romani e dalla vigorosa nudità degli eroi greci, abitava in un villino-studio, che oggi è un museo, ancora abitato da quelle sue monumentali sculture che rappresentano un’umanità di giganti eroici in cui anche le donne hanno muscolature virili e una monumentalità inquietante. Luca Lo Pinto ha portato l’utopia visionaria di Ontani in quella casa, dove lo scultore danese aveva vissuto e lavorato, sognando una città ideale in cui tutte le arti potessero convivere e una vita forse più libera. Se l’opera d’arte deve servire come attivatore di connessioni neuronali, questo è il caso di una felice riuscita, le maschere musicali create negli ultimi 15 anni da Ontani a Bali si librano come in volo appoggiate sui volti dei giganti di gesso bianco scolpiti da Andersen, in un riuscito connubio di passato e presente, di plasticità classica e di sogni orientali. Se, come insegnano le avanguardie storiche, tutti i sensi devono essere coinvolti, in questa mostra non solo la vista è sollecitata ma anche l’udito, Charlemagne Palestine, uno dei maggiori esponenti della musica d’avanguardia oltre che uno dei più originali performer e artisti della scena americana degli anni Sessanta e Settanta, ha creato una colonna sonora “site specific” per ciascuna maschera rielaborando le registrazioni delle singole maschere che Ontani ha usato per le sue performance.

Al primo piano del museo si snodano, con un percorso inedito e formalmente rigoroso, molte opere, fra cui alcune totalmente sperimentali, dalla metà degli anni Sessanta fino ai primi Settanta, come La Stanza delle Similitudini, realizzata nel 1970 per la sua prima personale a Milano, che è la madre-matrice di tutti gli ambienti di Ontani, in cui gli “oggetti pleonastici”, evocando un oggetto corrispondente, creano una rete senza fili di similitudini in cui gli occhi dello spettatore si devono districare.

La parola è il filo che lega tutto: nel mondo di Ontani non esistono opere che non hanno un nome, i titoli sono altrettanti stimoli intellettuali che possono essi stessi generare opere. La poesia di Palazzeschi e di Mallarmé, ma anche le parole in libertà dei Futuristi, la citazione dotta e la sua, talvolta immediata, de-sacralizzazione, il “calembour”, il gioco di parole, questi sono gli elementi nutritivi imprescindibili che hanno permesso alle sue opere di avere una molteplicità di significati e di riferimenti intellettualmente elevati. Nell’opera di Ontani la rutilante vitalità dei colori accesi, l’ironia dissacrante, i voli pindarici compiuti con l’occhio pineale sono però velati e fusi in una sorta di malinconia simile al sonno o all’oblio che, come elementi dissonanti, inducono quel senso di straniamento dal reale che è il nutrimento per la fonte della creazione.

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