Dada non significa nulla. Così, un secolo fa, in un locale malfamato di Zurigo frequentato da artisti, scrittori, attori e altri spiantati, iniziò l’incredibile avventura dell’Avanguardia più radicale che sia mai esistita. Arrivando a contraddire anche la propria esistenza, Dada negava tutto ciò che era possibile smentire, il presente e il futuro, il senso stesso dell’esistere storico, l’arte e la società intera. «Non voglio nemmeno sapere se sono esistiti uomini prima di me», scriveva Samuel Rosenstock, in arte Tristan Tzara, ebreo rumeno in fuga dall’antisemitismo della sua patria e tra i fondatori del gruppo. Il paradosso delle origini è affrontato anche da Hans Arp che, al quesito se sia nato prima il Dada o il dadaismo, rispondeva senza tema di smentita: «eravamo tutti dadaisti prima dell’esistenza del Dadaismo». Eppure, oltre al rompicapo circolare, una logica doveva esserci, perché Tzara stava scientemente citando René Descartes, il padre del razionalismo. E questa logica era fondata sull’ironia totale, su un raffinato gusto per la contraddizione palese e l’iperbole, figure retoriche visive che non hanno perso smalto e, pur storicizzate, continuano a far discutere schiere di critici e artisti, coinvolgendo anche il pubblico di non addetti ai lavori, in un raro momento di contatto tra i linguaggi.
Nella capitale elvetica, il centenario Dada sarà celebrato con un lungo calendario che scandirà un 2016 di appuntamenti eterogenei, disorganici, dalla serata danzante all’opera lirica, dalla mostra che mette a confronto l’arte dadaista e quella africana, alla retrospettiva su Francis Picabia. Gli eventi interesseranno l’intera città, arrivando a coinvolgere anche Manifesta 11 ma, ovviamente, l’epicentro sarà il Cabaret Voltaire, al numero 1 di Spiegelgasse. Il luogo dove tutto ebbe inizio, il 5 febbraio 1916.
Sarebbe piaciuto molto ai suoi adepti essere nati dal nulla cosmico, in un eterno mai, invece, il Dada muoveva i suoi primi passi in tempi storicamente densi, quando divampava il terribile fuoco della Grande Guerra e nella Svizzera neutrale avevano trovato rifugio molti intellettuali pacifisti. Nei pressi di Lugano, già dal 1914, avevano iniziato a riunirsi, in una strana accozzaglia di teorie e con modi molto simili alle future comuni hippy, nutriti gruppi di antroposofisti, guidati da Rudolf Steiner, e di anarchici, tra cui Bakunin. Vivevano in primitive colonie agricole sul Monte Verità, giravano seminudi, danzavano in cerchio davanti al fuoco, rigettavano ogni tipo di autorità costituita e attiravano la curiosità dell’intellighenzia dell’epoca, da Carl Gustav Jung a Hermann Hesse. Lì, ora, c’è un albergo con sala da tè giapponese, giardino Zen e parcheggio.
Insomma, in Svizzera, in quegli anni, non solo non c’era da annoiarsi, ma vi si poteva trovare una relativa tolleranza. Doveva pensarla così Hugo Ball, scrittore tedesco amico di Kandinskij, riformato al servizio militare, ammiratore di Kropotkin e dei mistici cristiani, quando decise di stabilirsi a Zurigo, dopo aver passato non più di un paio di notti al fresco per essere stato scoperto senza documenti dalla polizia svizzera. Portamento elegante, ben vestito, padrone di una cultura profonda ed eccentrica, prese in affitto una stamberga e, insieme alla compagna, il 5 febbraio 1916, aprì il Cabaret Voltaire. «Un pandemonio totale. La gente intorno a noi urla, ride e gesticola. Le nostre risposte sono sospiri d’amore, raffiche di singhiozzi, poemi, versi», questa è la descrizione di una tipica serata, nelle parole di Jean Arp, assiduo frequentatore del locale, dove, poco dopo, arrivò anche Tzara. Strano a dirsi ma, in questa confusione, Ball riusciva anche a organizzare conferenze, incontri, concerti di musica sperimentale e spettacoli di teatro d’avanguardia.
Fuori, le trincee trasformavano gli uomini in soldati. Il 21 febbraio 1916, a Verdun, in Francia, a poco più di 400 chilometri da Zurigo, ebbe inizio una delle più violente battaglie moderne, entrata nei modi di dire francesi per indicare eroismo e sofferenza. Tra le pareti del Cabaret, gli echi della guerra arrivavano e incutevano un terrore che, attraverso il confronto di idee, doveva essere sublimato, convertito, non tanto in arte e poesia, quanto in un modo di vivere. Impulsi e materiali venivano cannibalizzati proattivamente, parole, forme e colori erano strumenti da combinare, per gestire un cambiamento di cui, al tempo stesso, si rigettava la pianificazione, sostituendo la follia del tempo con un’altra follia, in grado di abbattere la storia.
Celebre fu la disputa con il Futurismo, bollato da Richard Huelsenbeck, nel Manifesto Dadaista, come una «tendenza artistica del passato». Così, al grido disperato e sorridente di «Abbasso il futuro!», in un misto di nichilismo e divertimento, partì la storia del Dada che si diffuse subito a Berlino e Parigi, fino a New York. Scrittori, registi, artisti furono coinvolti, George Grosz, Marcel Duchamp, Kurt Schwitters, Man Ray, Francis Picabia, André Breton, John Heartfield, Raoul Hausmann, ne seguirono le orme e rilanciarono il gioco con soluzioni diverse e applicazioni anche molto distanti, ognuno contribuendo a far perdere l’orientamento.
In seguito, tutti se ne allontanarono, il Dada sembrò estinguersi ma niente fu più come prima. Il Dadaismo, completamente slegato da tutto e anche da se stesso, senza proporre teorie tranne l’estetica della negazione assoluta, agì in modo ancor più radicale delle altre Avanguardie coeve, rimanendo vitale su un livello di latenza, mimetizzandosi nella cultura percettiva non solo europea.
A questa permanenza farà riferimento, presumibilmente, anche Manifesta 11. Non si conoscono ancora i particolari sull’edizione svizzera della biennale itinerante che, però, già presenta molti elementi ascrivibili a una poetica dadaista. Dalla scelta di Christian Jankowski come curatore, una singolare figura di artista, instancabile decostruttore di ruoli e funzioni, al titolo stesso, una domanda con risposta multipla, “What People Do For Money”, cosa fanno le persone per guadagnare soldi, fino al Padiglione delle Riflessioni, una grande piattaforma galleggiante sul lago a sudest della città che, progettata da un team di trenta studenti del Politecnico di Zurigo, sarà un nuovo ed effimero punto di riferimento nel paesaggio urbano.
Punto forte di tutta la rassegna saranno le esposizioni. Alcune saranno dedicate alle figure eponime del Dada, come “Dada anders”, visitabile alla Haus Konstruktiv dal 25 febbraio e incentrata su Sophie Taeuber-Arp, Hannah Höch ed Elsa von Freytag-Loringhoven, o come la grande retrospettiva su Francis Picabia, alla Kunsthaus Zürich dal 3 giugno e in collaborazione con il Museum of Modern Art di New York. Altre affronteranno argomenti ancora poco analizzati, come “Dada Afrika”, al Museum Rietberg dal 18 marzo, che mette a confronto l’arte dadaista con le culture extraeuropee.
Luogo cardine della kermesse sarà il Cabaret Voltaire, riaperto nel 2004, con “165 Feiertage – Dada 100”, 165 giorni di festa che saranno dedicati ad altrettanti dadaisti e alla storia, alla filosofia e all’eredità del movimento. Il Dada sconfinava spesso e volentieri dalla cornice, infatti, come si legge nel programma, «momento clou» di queste giornate sarà la Benedizione dada, una speciale messa celebrata da Lady Gaga che, c’è da scommetterci, per l’occasione sfoggerà una mise più che memorabile.
L’attitudine al travestimento era chiara fin dagli esordi, quando Ball recitava le sue poesie fonetiche in costume, e sarà rievocata nella serata danzante alla Kunsthaus, il 13 febbraio, con un ballo in maschera, in un mix di performance, a cura del gruppo Les Reines Prochaines, e dj set, con tanto di premiazione dell’abito più bizzarro.
È chiaro che, se volessimo spiegare cos’è il Dada, non potremmo fare a meno di arrossire.
Mario Francesco Simeone
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per fare la pignola....
la capitale della Svizzera è Berna non Zurigo
Monte Verità è più vicino a Locarno che a Lugano