Qualche tempo fa, dopo nemmeno sei mesi dall’incarico, la direttrice artistica della neonata Villa Reale di Monza,
Elisabetta Galasso, viene dimissionata. Le motivazioni che
vi abbiamo raccontato sono racchiuse in una situazione che anche il Corriere dalla Sera, diverso tempo dopo, definirà uno “spezzatino”.
Ma anziché continuare nel solco, abbiamo accettato l’invito del Presidente di Italiana Costruzioni (ente che gestisce e gestirà la Villa per altri 18 anni, e che ne ha permesso i restauri) Attilio Maria Navarra, e di Valentina Sbaraglia, Referente della società Nuova Villa Reale Monza, per cercare di capire più da vicino cosa sta accadendo in quella che potrebbe diventare la nuova Versailles italiana, alla medesima distanza da Milano dell’esempio parigino. Ma andiamo per gradi.
La Villa Reale di Monza è stata edificata a partire dal 1777, in soli tre anni, dall’architetto Giuseppe Piermarini – lo stesso del Teatro La Scala – per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria come residenza estiva per la corte arciducale del figlio Ferdinando d’Asburgo-Este. In una posizione strategica tra Vienna e Milano, immersa nella natura, la Villa è stata in seguito una residenza dei Savoia, fino al 1900, anno in cui Umberto I fu assassinato proprio a Monza e il nuovo Re, Vittorio Emanuele III, non volle più utilizzare la dimora, facendola chiudere e trasferendo tutto al Quirinale.
Da qui in poi quasi un secolo di finestre sbarrate, incuria, topi, un tetto che ha rischiato di crollare. Poi la rilevazione di Italiana Costruzioni dei Fratelli Navarra, impresa che dal 1999 si occupa di restauri monumentali (dal Colonnato di Piazza San Pietro alla Basilica di Sant’Antonio a Padova e Palazzo della Ragione di Verona) che compie una sorta di primo miracolo, riportando dopo soli due anni di lavori tutto lo splendore originale del corpo centrale della Villa e degli appartamenti reali.
Nello specifico si tratta del primo esempio di “Project Financing” di queste dimensioni, non solo in Italia ma in tutto il mondo, a cui ora si farà seguito con il progetto di recupero dell’Arsenale, di nuovo a Verona.
Nello specifico, spiega Navarra: «Questo partenariato permette al pubblico di restare proprietario dell’immobile, ma utilizza il privato per gestire tutte le attività». Nello specifico, per la Reggia e i suoi restauri, sono stati impiegati 18 milioni di euro, e Italiana Costruzioni per la manutenzione ordinaria mette 460mila euro all’anno. Con la clausola di riconsegnare, tra 18 anni esatti, la Villa esattamente nelle stesse condizioni in cui si trova oggi. Difficile barare, anche perché non solo i parametri sono molto stringenti, ma è stato costituito anche un comitato di vigilanza che mensilmente verifica lo stato di conservazione.
E allora, dove si è consumato il grande problema della Villa? In una destinazione d’uso che deve tenere conto anche del lato imprenditoriale della questione: in quanto azienda, Italiana Costruzioni, deve rispondere agli Istituti di Credito che hanno permesso il finanziamento dei restauri e che permettono la vita della Villa, a patto che i conti tornino.
Ed è particolarmente difficile che tornino destinando qualcosa come 11mila metri quadrati a una sola attività, o a qualcosa del genere. Ecco insomma che il piano culturale si interseca con quello di una sostenibilità, oltre che economica anche di attività.
«Cosa è questo spezzatino? È quello che si vede: un bar, un ristorante, un bookshop: un luogo che vive, con le mostre di Triennale nel sottotetto, con la possibilità di fare eventi al primo piano nobile [ne sono già stati definiti 80 entro la fine dell’anno, n.d.r.] e di avere mostre più strutturate al secondo. Dopo tanti anni la Villa ora è aperta al pubblico e riconosciuta come uno spazio dove si può stare: questo è il concetto», spiega Navarra.
Ma questo benedetto comitato scientifico, invocato anche dal Movimento 5 Stelle all’inizio del 2016? Andrà definito e, secondo i piani del Presidente alla figura referente per la Villa (ovvero Valentina Sbaraglia, curriculum in Economia applicata alla gestione dei Beni Culturali), dovranno essere associate tre personalità dalla forte connotazione culturale e manageriale che possano dare una sorta di svolta alla Reggia.
«Quando siamo partiti non avevamo esperienze analoghe dove imparare, visto che si tratta del primo e finora unico esempio di “project financing” associato ad una struttura del genere. Abbiamo innanzitutto creato un team di lavoro (di cui faceva parte, tra gli altri, anche Philippe Daverio), che per oltre tre anni si è riunito mese dopo mese per decidere che fare di questo corpo centrale e di questi famosi quattro piani. Siamo partiti con i servizi a terra, ci sono stati parecchi problemi, ma oggi dopo due anni si può dire che siamo soddisfatti», rimarca Navarra.
L’idea di fondo, almeno per quanto riguarda il primo piano nobile, ora gestito da Silvia Torri, è di avere un futuro non più solo come location temporanea, ma di “produrre” di eventi.
Potrebbe forse, in realtà, entrare a lavorare qui il gruppo che l’impresa ha costituito con Civita, CulturaDomani, che alla Villa gestisce il bookshop e parte del secondo piano, attualmente dedicato alle mostre temporanee (in scena ora le immagini di Giovanni Gastel sui protagonisti della musica italiana e un percorso con visori 3D tra le sale) e alla visita delle meravigliose stanze nobiliari.
Già, perché c’è da dire che il restauro degli ambienti, sotto la direzione tecnica di Giulia Putaturo, ha messo in luce una magnificenza e una bellezza davvero degni di nota: pavimenti lignei, intarsi, tappezzerie, stucchi, marmi, affreschi: tutto splende e rende queste stanze davvero paragonabili a una Versailles meno debordante, come dicevamo poco sopra.
Peccato che a volte con i numeri si faccia un po’ fatica. Gli ingressi, nel corso dello scorso anno, sono stati circa 300mila: ottimo il successo per Caravaggio, meno per la mostra promossa da Expo, “Fascino e Mito”, che però ha permesso di mettere alla prova la tenuta di sicurezza e climatizzazione delle sale: la Villa, oggi come oggi, può ospitare nella massima garanzia anche opere decisamente fragili.
Il pubblico? «C’è un’ottima presa sul bacino della Brianza; molto meno su Milano – dicono Sbaraglia e Navarra – Nella metropoli è ancora molto lontana l’idea che si possa passare un giorno da queste parti, e scoprire con un unico biglietto non solo la Reggia ma anche quel che vi sta intorno, a cominciare dal bellissimo parco. Stiamo cercando anche di andare incontro ai gusti dei visitatori, ma non possiamo avere ambizioni puramente pedagogiche come può avere un museo nazionale, per il semplice motivo che abbiamo un piano economico da rispettare». E, ribadiamolo, in cui rientrare.
Dunque, insomma, pare esclusa l’ipotesi che la Villa possa vivere solo di una vita ben definita: molto probabilmente dovrà essere, come ora, una struttura polivalente. Inutile mettere il picchetto delle sole visite come dimora storica, e idem investire solamente su arte contemporanea, o scultura, o fotografia per dirne un poco.
Insomma un semplice direttore artistico pare davvero un po’ superato in questo caso; quel che serve è un vero e proprio manager culturale, lontano forse anche dalle stesse esperienze e nomi assegnati ai musei autonomi dalla Riforma Franceschini. Qualcuno che non abbia problemi a cucinare gli “spezzatini” serviti in Villa nel miglior modo possibile, e sappia come orchestrare nomi e attività differenti in una condivisione di intenti.
Non sarà facile, ma l’impegno a mettere le carte in tavola c’è, anche per quanto riguarda lo staff, che comprende 12 guide, tutte regolarmente contrattualizzate, e di questi tempi è per lo meno un bel segno. Senza dimenticare anche Le Cucine di Villa Reale, il davvero ottimo ristorante al piano terra della Reggia, che ha anche uno splendido dehor sul parco. Per un museo, di qualsiasi natura sia – e sarà – è sempre un bel biglietto di visita.
Buon lavoro.
Matteo Bergamini