MADRE, CHE MOSTRA!

di - 25 Agosto 2015
Ci siamo! Oggi, finalmente, il parto! Abbiamo assistito a diverse fasi del “travaglio”, in questi ultimi mesi, de “La Grande Madre”, la mostra di Fondazione Trussardi e curata da Massimiliano Gioni, che domani si svela al pubblico di Palazzo Reale, a Milano. Una gestazione importante, un po’ di mistero sulle opere (sono più di centotrenta gli artisti coinvolti), e il coinvolgimento del pubblico più social che, in questi ultimi mesi, ha potuto “partecipare” con le open call ispirate alle opere sia di Yoko Ono, prendendo spunto da My Mommy Is Beautiful, progetto nato da un’installazione che l’artista ha realizzato nel 2004 per la Biennale di Liverpool e che attraverso gli hashtag ufficiali #mmib, e #mymommyisbeautiful ha messo in luce, tramite social network e sul web a www.mymommyisbeautiful.com, quanto l’amore per la “mamma” sia l’argomento degli argomenti, sia con Teaching to walk di Roman Ondák, performance per vivere uno dei momenti più emozionanti e imprevedibili dello sviluppo dell’essere umano: i primi passi. Ogni giorno, infatti, nelle sale della mostra, una mamma insegnerà al proprio figlio a camminare, e le immagini più belle saranno raccolte in un album in progress sul sito www.lagrandemadre.org.
Detto questo, un po’ di nomi: Magdalena Abakanowicz, Louise Bourgeois, Nathalie Djurberg, Eva Hesse, Franz Kafka, Barbara Kruger, Alfred Kubin, Sarah Lucas, Annette Messager, Francis Picabia, Thomas Schütte, Cindy Sherman, Kiki Smith, Kara Walker, Nari Ward, Andy Warhol e Virginia Woolf.
Un piatto ricchissimo, tra allattamento, rivoluzione, storia, politica e chi più ne ha più metta, che usa il “nutrimento” di Expo anche come base della riflessione dell’arte intorno ad una nascita e ad una maternità che, lo stesso Gioni in conferenza stampa, lo scorso marzo, non aveva certo indicato come “dolce”, puramente femminea, soft-core, ma che si fa violenza, cambiamento. Scrive il curatore in catalogo: “Paradossalmente, quando si parla di madri e di maternità nel Novecento, si finisce sempre per parlare di padri – troppo spesso padroni – e di stato, di nazioni e di religioni. Analizzare l’iconografia della maternità nel corso del Novecento vuol dire quindi inevitabilmente assistere a un processo di usurpazione per il quale la rappresentazione del materno e del suo immaginario sono affidati all’uomo e solo in rari e controversi casi alla donna. Raccontare l’iconografia della maternità dunque significa innanzitutto domandarsi chi ha il diritto di decidere del proprio corpo e dei propri desideri e chi ha il diritto di rappresentarli: significa cercare di capire e ridefinire la posizione dell’individuo rispetto a se stesso, alla famiglia, allo stato e alla religione, e rispetto agli altri”.
Ma sentiamo meglio Gioni come presenta la sua mostra, iniziando da titolo.
“La Grande Madre”, si presta a moltissime interpretazioni – da quella esoterica all’idea di un pianeta che genera vita e che dovremmo imparare a conservare. Ma anche di una figura famigliare d’altri tempi, dell’Africa, solo per dirne alcune. Che tono ha l’esposizione?
«A me piace affrontare temi complessi e ricchi di stratificazioni, quindi molti degli argomenti che citi sono presenti in mostra o evocati da alcune opere. Penso che le mostre che più mi interessano, e che mi sembra interessino gli artisti e il pubblico, siano quelle in cui il tema si presta a una molteplicità di collegamenti. Spero che “La Grande Madre” sia proprio così: una mostra in cui ogni opera – in dialogo con altre – innesca una serie di reazioni a catena. In fondo è un’esposizione che parla anche di psicoanalisi e quindi non mancheranno molte libere associazioni».
Tempo fa hai parlato de “La Grande Madre” come una “mostra enciclopedica-pedagogica di carattere storico”. Quello però che colpiva era un’altra tua dichiarazione dove affermavi che l’incarico nella Fondazione Trussardi ti permette di portare avanti la ricerca. Che cosa ti interessa dell’arte, al di là di mostre, biennali, mercato, sistema?
«Delle opere d’arte mi affascina il fatto che non si possano mai esaurire e che continuino a rinnovarsi nella nostra percezione. Più in generale, dell’arte mi interessa la capacità di creare una cifra visiva di un’intera cultura che si combini con i desideri e le intenzioni del singolo. È questo continuo scambio tra il singolo e il collettivo che definisce l’arte. Rispetto poi al progetto che abbiamo cercato di realizzare in questi anni con la Fondazione Trussardi, ecco, forse abbiamo proprio agito sulla relazione tra arte e pubblico, tra individuale e collettivo, portando l’arte in spazi inusuali, rendendo di nuovo pubblici e accessibili molti luoghi chiusi, dimenticati e nascosti».
Pensi che abbia ancora senso fare mostre tematiche?
«Assolutamente sì. Anzi, è fondamentale perché ormai – con la complicità del mercato – si tende a prediligere una visione dell’arte come pratica individuale, di grandi nomi e maestri. Le mostre a tema ci permettono di costruire narrazioni più complesse e di ricostruire una visione dell’arte che non è appiattita sul mito dei grandi artisti dai grandi prezzi. Le mostre a tema ci ricordano che l’arte non serve solo ad accrescere la fama, ma a interpretare la cultura».
Derek Jarman si definiva un archeologo continuamente alle prese con la scoperta dell’arte del passato, così come Pasolini. Hai diretto una biennale sul “sapere”: come definisci il tuo ruolo?
«Se volessi essere sfacciato e ambizioso, mi piacerebbe usare la definizione che Aby Warburg usava per se stesso, quella di “psicostorico”, ovvero di uno storico della psicologia e della cultura capace di “diagnosticare la schizofrenia della cultura occidentale a partire dalle sue immagini” – ipse dixit. Vale la pena ricordare che il povero Warburg ha avuto un paio di esaurimenti nervosi ed è uscito pazzo, quindi molto più modestamente direi che il mio ruolo è quello di un arredatore di interni: appendo quadri e installo opere negli spazi, cercando di far sì che siano belle e complete in se stesse, ma capaci di parlarsi l’un l’altra, arricchendosi a vicenda».
Chi ha scelto il tema della madre per Expo?
«Il tema della mostra l’ho scelto io. Volevo trovare una prospettiva che potesse collegarsi al tema della nutrizione, ma da un’angolazione più complessa e ricca, e così è nata l’idea di una mostra sulla mamma. È un tema anche tutto italiano, quindi mi sembrava perfetto per quest’occasione. E poi c’è il precedente del progetto mai realizzato di Harald Szeemann, che nel 1975 voleva fare una mostra sulla maternità, o, meglio, sulle donne che rifiutano la maternità. Beatrice Trussardi ha avuto come sempre un ruolo importante, perché ci ha spinto a fare una mostra diversa dalle nostre precedenti e dall’inizio mi ha spinto a pensare a un progetto sulla donna».
Quest’anno Trussardi non sceglie un luogo particolare da far rivivere, ma Palazzo Reale, simbolo del potere istituzionale dalla cultura a Milano. C’è voglia di allargare la visibilità delle attività della Fondazione? O magari di trovare una sede fissa a Milano?
«Le ragioni della scelta di Palazzo Reale per la prossima mostra della Fondazione Trussardi sono molteplici. Innanzitutto volevamo fare qualcosa di diverso e speciale in occasione di Expo: volevamo fare una grande mostra a tema come non ne abbiamo mai fatte a Milano – e che ci sembra manchino a Milano. Per questo tipo di esposizione a carattere museale, Palazzo Reale è la sede ideale perché adotta standard internazionali in termini di conservazione e protezione delle opere. E poi abbiamo trovato la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura che con la Fondazione Trussardi voleva portare l’arte contemporanea in una
sede istituzionale importante».
Parliamo di qualche cifra? A quanto si aggira il costo di produzione de “La Grande Madre”? Come negli Stati Uniti c’è stato qualche donors che ha accettato di contribuire alla causa in cambio di un
ritorno di immagine?
«Non abbiamo mai divulgato le cifre e i costi delle nostre esposizioni, anche perché con l’arte contemporanea si finisce già sin troppo spesso a parlare di soldi invece che di idee. La Fondazione Trussardi sostiene la maggior parte dei costi di questa mostra. Ma in questo caso abbiamo anche trovato l’appoggio importante di BNL-Paribas, che ha deciso di sostenerla. È una mostra complessa che richiede sforzi importanti e quindi siamo molto lieti di questa collaborazione con BNL, che è molto sensibile all’arte e alla cultura».
Che cosa dovrebbe fare Milano per non perdere la carta dell’internazionalità che, forse, è arrivata grazie un po’ anche a Expo?
«Non ho ricette. Milano è già la città più internazionale d’Italia, quindi si tratta forse solo di rendere più visibile questa caratteristica».
Foto in alto:
Anna Maria Maiolino, Por um Fio [Per un filo], dalla serie Fotopoemaçã [Foto-poesia-azione], 1976, Fotografia in bianco e nero, 52 × 79 cm. Collezione Finzi, Bologna. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano

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