Magie di MA*GA

di - 9 Settembre 2013
Può sembrare strano, ma pare che i cittadini di Gallarate abbiano capito la grandezza della loro collezione – lo diceva il sindaco del paese, Edoardo Guenzani – solo dopo aver visto i capolavori del MA*GA in mostra da altre parti. Alla Triennale di Milano per esempio, dove la scorsa primavera è subito “ripreso il viaggio”, come recita il titolo ungarettiano scelto per gli ultimi appuntamenti con la collezione del Museo, orfana delle proprie stanze dopo l’incendio che ha reso inagibile parte dell’edificio, nel giorno di San Valentino. All’indomani delle fiamme ci si era chiesti “che fare”? La risposta alla domanda delle domande, come ci racconta Lorena Giuranna, responsabile del Dipartimento Educativo del Museo, è stata quella di andare avanti. Subito. Un imperativo che ha portato negli stessi giorni dell’incendio anche la conclusione di un ciclo di conferenze iniziate nei mesi precedenti, e che ha – ancora più importante – messo in relazione diversi attori, che da subito si sono mobilitati per non lasciare “al buio” il MA*GA. Quegli attori -comuni, province, assessorati- che spesso si guardano e non si parlano, vittime talvolta non solo del “sistema dell’arte”, ma di mancate collaborazioni dovute a giochi politici, per non dire di campanilismi. E invece no, il MA*GA ha fatto una magia.
Ponendosi in sinergia con le istituzioni partner, espressione di un sistema che si può creare, di un collaborazionismo positivo che – e perdonate il refrain continuo – nell’epoca dei tagli è quello che di più auspicabile potrebbe capitare – che ha portato il museo di Gallarate a unirsi, per una “promozione comune” con l’istituzione milanese e ora Villa Reale, portando in tour la collezione. Scherzano, e un po’ gongolano, i sindaci di Monza e Gallarate, l’Assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno, il Presidente del MA*GA Giacomo Buonanno e Caterina Bon Valsassina, soprintendente regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici, quando parlando di una disgrazia che ha portato dei benefici. Ma per certi aspetti è vero: a parte il museo danneggiato, alla cui ricostruzione stanno contribuendo anche Regione Lombardia e Fondazione Cariplo, con finanziamenti a fondo perduto, il ‘900 italiano ha trovato il modo di uscire dai propri confini per essere visto anche laddove di solito non arriverebbe. E dove l’arte moderna e contemporanea non erano mai arrivate, come nel Serrone adiacente a Villa Reale, che diventerà la sede di rappresentanza ufficiale dell’Esposizione Universale.
Per una volta, nella storia dei musei italiani, sembra aprirsi la capacità di fare rete e di promuovere i propri tesori anche se non ci sono in mezzo privati o tantomeno magnati: né Della Valle, Broad o Pinault vari, ma solo le forze della pubblica amministrazione, i comuni. E anche questa è una bella lezione per l’Italia che piange ogni mancanza, per chi rifugge l’idea che possa ancora esistere un aspetto “pubblico” contro una “privatizzazione” totale. Nulla in contrario al modello americano, per carità, ma dopo tante brutte storie di fallimenti, di musei che non solo perdono direttori ma che abbassano in toto la serranda, ecco che arriva quello che si prospetta come l’happy ending dell’arte, almeno in Lombardia.
Proprio alcuni giorni fa, in un bell’editoriale del Corriere della Sera sulla responsabilità delle Amministrazioni nei confronti della sovvenzione e della promozione della propria cultura, firmato da Gianni Ravelli, si rifletteva sul fatto che la storia del “non ci sono fondi” non sia più minimamente convincente. Perché continuando a menare il can per l’aia non ci si rialza, nemmeno stavolta. E basta poco per iniziare a promuovere le proprie città, il tesoro che esse possono contenere. Ravelli faceva l’esempio della mancata promozione turistica negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, nei punti strategici di una città, in una serie di materiali informativi coordinati tra ristoranti, alberghi, locali notturni, nonché sui social network: «Verona si è inventata una “Casa di Giulietta” inesistente, che accoglie un milione e mezzo di visitatori l’anno. Perché la Pinacoteca di Brera e il Cenacolo vinciano arrivano a 300mila presenze l’anno?», chiede Ravelli. Non di certo perché manchino le opere di qualità. Ma manca la capacità di comunicare, o per lo meno non lo si fa nel modo giusto. Offerte e gratuità comprese.
Perché questa parentesi? Perché il MA*GA ha le proprie specificità, la propria ricca e ben connotata collezione, così come il Serrone di Villa Reale, con il suo parco le sue mura di cinta lunghe 14 chilometri, così come Milano e la sua Triennale, sono  l’esempio concreto di come non ci sia nulla da inventare: tutta la bellezza e le possibilità per riscattarla sono a portata di mano, ma è necessario promuovere. Per poter tornare a respirare e per poter mettere una croce sopra alla parola crisi.
Quel che è più che mai necessario, in una sorta di “arti di tutto il mondo unitevi” è, non solo la cooperazione, ma la volontà di far vivere le opere. In un primo discorso ben azzeccato, Del Corno ha paragonato le partiture musicali ai dipinti: «La partitura diviene musica solo tramite l’esecutore: per chi non le può leggere, o senza uno strumento, restano fredde scritture. Lo stesso accade se un’opera non viene vista. Resta in potenza, proprio come una partitura non suonata». L’atto di restituire vita, anzi, visibilità, alle opere delle collezione del MA*GA ha in qualche modo un significato simbolico forte. Un museo il cui cuore va a battere, nomade, in altre case. Creando ricchezza, promuovendosi, e contaminandosi. Perché, parafrasiamo ancora Ravelli, «autoconvincersi di essere nel “meglio” è solo un alibi per non fare nulla. E arretrare continuamente».
Ma qui siamo al lieto fine, e oltre a tutto questo, ma non in ultimo, ci sono le opere. Divise in sette sezioni stavolta, ma in un progetto unico condiviso dalle tre istituzioni, a  tracciare un percorso che in questo caso mette in risalto i primi tre decenni dell’arte italiana, dal dopoguerra ai momenti del primo concettuale, fino alla metà degli anni ’70. Un percorso fluido dove si alternano una selezione di 100 opere del fondo del museo, che conta circa 6mila pezzi, la cui “unione” è iniziata nel 1949 grazie al Premio Gallarate, indetto da Silvio Zanella e da un gruppo di artisti del luogo, oggi arricchito anche dal deposito della collazione di Walter Fontana.
Qualche chicca? Una Maternità di Enrico Baj, realizzata ovviamente con i pezzi del Meccano, e lo splendido progetto L’arte come servizio – L’artista come servo vizioso, realizzato da Franco Ravedone nel 1975: l’artista cambia il rullo d’inchiostro alla macchina da scrivere di diversi critici, tra cui si scoprono Lea Vergine, Gillo Dorfles, Tommaso Trini, Jole De Sanna, Adriano Altamira, Corinne Ferrari e diversi altri, immortalati in un’istantanea che racconta anche di un’epoca, come riusciva a fare solo quella parte di Narrative Art estremamente affascinante, in grado di mischiare un angolo di società con il concettuale, con il documentaristico della vita che iniziava a parlare anche autoreferenzialmente a sé stessa, a farsi spettacolo. Dulcis in fundo Franco Mazzucchelli, Pneuma, nella rotonda neoclassica della serra: due cuscini pneumatici in pvc fucsia, mossi al tempo di un lunghissimo respiro. Un ambiente che ricorda una Versailles in miniatura, ai tempi di Jeff Koons. Ve lo immaginate come biglietto da visita per Milano, Expo o non Expo, su qualche cartellone nell’area arrivi di Linate o Malpensa?

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