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08
luglio 2014
Manifesta sotto scacco
Progetti e iniziative
Non coglie nel segno la decima edizione della biennale europea giovane e nomade. E non perché sullo sfondo c’è la crisi ucraina o gli ultimi provvedimenti di Putin. Le ragioni sono interne. A partire dalla scelta della sede espositiva: il magnifico e inarrivabile Ermitage. Che, invece di dialogare con l’arte contemporanea, se lo inghiotte. Colpa anche di una curatela un po’ sciatta e di alcuni deja vu
“Manifesta 10 possiede un giocoso approccio nel rispondere alla domanda su come possiamo collocare una prospettiva orientata verso il futuro nell’Ermitage, un museo che è orientato verso il passato per sua stessa natura”.Una sfida non da poco anche per un curatore navigato come Kaspar Konig, chiamato a curare la decima edizione della biennale per artisti delle ultime generazioni più importante d’Europa che, per la prima volta, dopo vent’anni dalla sua fondazione, si misura con uno dei più famosi e labirintici musei del pianeta, autentica città nella città di San Pietroburgo, cuore nostalgico e misterioso della grandeur di Pietro il Grande. Oggi, sotto il cielo di fine giugno, il palazzo d’Inverno si tinge di inquietanti presagi, con la questione ucraina alle porte e le ultime leggi oscurantiste promulgate da Putin, il passato sembra mescolarsi con il presente lungo i marciapiedi affollati della Prospettiva Nevsky, mentre frotte di turisti si mettono in fila per vedere dipinti di Leonardo e Rembrandt, Rubens e Caravaggio tra marmi e lapislazzuli, stucchi e ori raccolti nei secoli dalla grande madre Russia.
E qui, guardiano imperscrutabile e zar della storia dell’arte, il direttore Mikhail Piotrovsky fa da cerimoniere assoluto, soddisfatto per non essersi lasciato andare alle provocazioni degli artisti e aver spalancato le porte all’arte contemporanea europea, che ha abilmente saputo inglobare nell’atmosfera senza tempo del suo regno dalla surreale facciata color pistacchio. Incurante delle polemiche, ospite premuroso ma fermo, collega ma non sodale del curatore, è lui ad aver tenuto le redini di Manifesta, ad averne addomesticato gli umori aspri e le volontà ribelli. Così, rispetto alla volontà espressa da Konig, la realtà ha preso un altro verso: non è Manifesta ad aver messo in discussione il passato rappresentato dall’Ermitage, ma il contrario esatto. Il museo ha inghiottito la mostra, riducendola ad una curiosa bizzarria, una singolare e interessante parentesi nella vita della secolare e solidissima istituzione.
Cominciamo dal General Staff Building, un inquietante dinosauro restaurato di recente dopo aver ospitato per anni il ministero degli Affari Esteri dell’URSS. Nel cortile di proporzioni gigantesche sfilano una serie di opere di qualità, dominate da Abshlag, l’installazione monstre di Thomas Hirschorn che unisce il fascino di una rovina all’evocazione di un cataclisma che distrugge il fronte di un condominio arredato alla russa con alle pareti capolavori suprematisti prestati dalle collezioni del museo ma invisibili perché appesi a trenta metri di altezza. Il percorso continua con Basement, il surreale ma ironico omaggio ai gatti che vivono nei sotterranei dell’Ermitage di Eric Van Lieshout che immette in un salone degno di un Ben Hur in versione soviet, dove su porte di legno per elefanti (o carri armati) è proiettato Egalitè, il video di Elena Kovylina che ritrae una performance politica che si svolge nella piazza davanti al palazzo d’Inverno.
Nei due piani dell’edificio, che si appresta ad ospitare il nuovo dipartimento di arte contemporanea dell’Ermitage (guarda caso!) sfilano tra sale asettiche e senza fascino opere di una trentina di artisti internazionali, non tutte realizzate per l’occasione e spesso senza alcuna relazione diretta con la mission della mostra.
Abbiamo rivisto con piacere Mapping the Studio I di Bruce Nauman e Cabaret Crusade di Wael Shawky già presentato all’ultima Documenta, così come la bella sala con i dipinti di Maria Lassnig in dialogo con la collezione di capolavori di Henri Matisse dell’Ermitage, trasferita qui dal terzo piano del palazzo d’Inverno, e apprezzato la selezione di immagini fin troppo addomesticate di Wolfgang Tillmans, ma l’occasione forse avrebbe suggerito maggior coraggio e meno dejà vu, se pure di indubbia qualità. Ottima la sala di Francis Alys, legata ad un episodio di vita vissuta che unisce ribellione a poesia, e decisamente buona l’installazione di Klara Lidén, che rivisita con ironia il mito della danza classica in Russia: un soggetto che Rineke Dijkstra tratta in maniera più prevedibile e formale attraverso una doppia proiezione video non priva di un’eleganza diafana, la stessa che ritroviamo nelle dieci sculture “acquario” di Ann Veronica Janssens, abbinate ad un’installazione luminosa meno significativa.
Ma veniamo ora alla vera sfida di Manifesta 10 , giocata dai 15 artisti presenti nelle sale dell’Ermitage. Al di là dello statement di Konig, anche qui le opere non mettono in discussione il ruolo del museo come territorio di incontro, dialogo e scontro tra passato e presente, ma optano piuttosto per la mimesi con l’antico, un addomesticato camouflage che ne denuncia a volte l’intrinseca fragilità.
Soltanto nella sala dell’Ercole all’interno della sezione delle antichità classiche Lara Favaretto propone una riflessione sui linguaggi e sulle possibilità della scultura contemporanea, attraverso una serie di blocchi di cemento manipolati dall’artista attraverso gesti bloccati nella materia, in una ricerca di armonia non formale ma concettuale davvero lodevole tra Fidia, Canova, Medardo Rosso e Brancusi. Altrettanto riuscita l’installazione sonora di Susan Philipsz che riempie lo scalone monumentale di note al pianoforte, mentre la rarefatta installazione di Karla Black Nature does the easiest thing appare come una mise en jeu in stile poverista in risposta ad arabeschi, stucchi e marmi che rivestono la sala delle Dodici Colonne.
Se la casa di legno costruita da Tatsu Nishi intorno ad un lampadario di cristallo ricorda troppo da vicino le installazioni dei Kabakov (una sorta di numi tutelari e involontari di questa Manifesta), forse l’opera più intensa in tutta la sua apparente fragilità è la serie di ritratti all’acquarello presentati da Marlene Dumas nella sua sala personale. Su fogli da disegno, attaccati con semplici puntine su un unico pannello, quasi a simulare un’iconostasi, l’artista ha raffigurato i volti di personaggi importanti del Ventesimo Secolo, per i quali l’omosessualità ha rappresentato una forte discriminazione.
Una galleria di uomini illustri che va da Nureyev a Diaghilev , dove ogni ritratto è accompagnato da una scarna didascalia scritta a mano dalla Dumas. Brucianti nella loro apparente natura bozzettistica, questi volti ricordano quanto l’amore per persone del proprio sesso costituisca ancora oggi una problematica complessa, che può condurre alla criminalizzazione e addirittura all’omicidio. Un messaggio in una bottiglia all’interno di una Manifesta che non sembra essere stata all’altezza delle aspettative di un decennale, celebrato dai pochi addetti ai lavori che nei giorni della vernice – come in un film di Bunuel – si aggiravano tra centinaia di visitatori alla ricerca di opere mal segnalate e poco valorizzate, che le guide responsabili delle mandrie di turisti si guardavano bene dal commentare, se non con qualche insulto nemmeno tanto sussurrato.