Mario Schifano e i suoi primi dieci anni

di - 29 Agosto 2013
Gli anni che vanno dal 1960 al 1970 sono il periodo clou della carriera artistica di Mario Schifano; senza alcuna formazione specifica, l’artista si avvicina alla pittura alla fine degli anni Cinquanta quando l’Informale predominava sul panorama pittorico italiano e la Pop Art ancora doveva diventare un fenomeno di massa.
L’esposizione che Castiglioncello propone, negli spazi del Castello Pasquini, a cura di Luciano Caprile e con la direzione di Giò Marconi, prende avvio con una serie di monocromi analoghi a quelli che erano stati esposti alla galleria La Salita di Gian Tommaso Liverani a Roma nel 1960, alla cui esposizione Schifano aveva partecipato insieme a Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini.
Il riferimento pittorico dei giovani artisti di quel periodo è sicuramente l’Informale che si afferma con grande clamore alla Biennale veneziana del 1960 ma Schifano sembra quasi essere più interessato alla pubblicità, alla tv – di cui subito ne intuisce le notevoli potenzialità massmediatiche – e al boom economico che coinvolge la società di quegli anni. L’artista si trova dunque a confrontarsi con la complessità della cultura coeva, con la realtà in cui vive ma la rielabora in modo del tutto personale, intuisce come si evolve la società e i suoi meccanismi. La pittura diventa quasi un mezzo critico per affrontare la contemporaneità.
Lo schermo televisivo è uno degli stilemi fondamentali della sua produzione artistica, lo schermo però è anche una finestra sul mondo attraverso il quale scrutare la società e rapportarsi a essa. Per Schifano dai monocromi alla “figurazione” il passo è breve, ma la sua è una figurazione “smozzicata”, incompleta, frammentata, presta attenzione alla realtà urbana e le pubblicità della Esso e della Coca Cola diventano immagini in cui riflettersi.
All’inizio degli anni Sessanta, Schifano è tra i primi a intuire che non è più Parigi il forum di scambio per l’arte contemporanea, ma New York e dunque comincia a frequentare con assiduità la metropoli americana dove la Pop Art si sta diffondendo a velocità esponenziale. Entra in contatto con i popist, – è incuriosito da Jim Dine, Andy Warhol e Jasper Jonhs – e con Ileana Sonnebend che, dal 1962 con l’apertura del nuovo spazio espositivo a Parigi, diventerà la sua gallerista sia in Europa che Oltreoceano. Ma, nonostante la notorietà che quest’opportunità gli dà, non si comporta come un artista americano, rimane italiano – romano in particolare – ed è orgoglioso di esserlo.
La breve parentesi dei “paesaggi anemici” in cui il colore – che fino a quel momento era stato lo smalto, resistente e brillante – si affievolisce e la figurazione si assottiglia fino a diventare povera ed evanescente, apre la strada alla rivisitazione del Futurismo. Tra le opere di maggior rilievo del periodo è visibile A la Balla del 1965 con la quale l’artista fa un personale omaggio a Giacomo Balla.
Il filone “futurista” prende avvio però con Camminare, altro omaggio al Balla di Bambina che corre sul balcone del 1912, ma raggiunge il suo culmine con la serie di dipinti impostati sulla classica foto di gruppo con Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni e Gino Severini a Parigi nel 1912 proiettata con l’episcopio che diventa la “base” su cui operare con interventi colorati da icona pop al pari di una pubblicità martellante. Qui l’artista coglie le origini della sua italianità e la sagoma dei cinque protagonisti diventa il suo nuovo stilema. Il colore ha spesso tonalità acide e valenze flou e la superficie dei quadri è talvolta ricoperta da lastre di plexiglass zigrinato che danno l’idea dell’immagine in movimento e dello schermo televisivo.
Il secondo versante degli anni Sessanta è caratterizzato dal recupero dei paesaggi della sua infanzia: le stelle e la palma richiamano il deserto della “sua” Libia, dove Schifano era nato nel 1934 e che aveva lasciato in tenera età. In queste opere la costruzione con il “riquadro” finestra/schermo è spesso evidente e i pannelli di perspex applicati sulla superficie pittorica danno l’impressione della riflettenza della luce e del recupero di una magia del passato, nonostante il colore spray abbia tonalità squillanti e antinaturalistiche.
Nell’ultimo scorcio del decennio Schifano si avvicina a tematiche socio-politiche con la serie Compagni compagni del 1968 alla cui base c’è la fotografia di reportage degli eventi d’attualità come la guerra del Vietnam o la contestazione giovanile filtrata attraverso la tv. In questo periodo Schifano era solito tenere accesi nel suo studio vari schermi televisivi sui quali passavano in continuazione immagini senza sonoro, erano immagini in bianco e nero che l’artista rende però sulla tela con pochi tocchi di colore che sono per lo più emozionali e non reali.
Il percorso si conclude con i “paesaggi TV” concepito tra il 1969 e il 1970 dove la sagoma dello schermo televisivo è particolarmente evidente. Sono opere create su pellicola fotografica su cui l’artista interviene con interventi di colori particolarmente vivaci.
La mostra, che si articola quindi in diversi periodi nonostante abbracci un arco temporale piuttosto limitato ma sufficiente e farci vedere come già in quegli anni tutto fosse già in nuce, è affiancata da una serie di documenti visivi che sottolinea l’interesse di Schifano per il cinema e per il video, non a caso è stato uno dei primi italiani a realizzare video d’artista. Umano non umano, il film documentario realizzato nel 1971, nel quale compaiono anche Carmelo Bene, Alberto Moravia e Sandro Penna, è essenziale per capire l’approccio che Schifano ha avuto con l’immagine.

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