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09
febbraio 2016
Marsèlleria una e bina. Presto anche trina
Progetti e iniziative
Incontro ravvicinato con l’anima di uno degli spazi più vitali di Milano e con l’artista che inaugura la sede numero 2
di Paola Tognon
Un’azienda dal 2001: Marsèll. Uno spazio attivo a Milano dal 2009: Marsèlleria #01 in Via Paullo. Un secondo spazio sempre a Milano: Marsèlleria #02 in Via Privata Rezia, inaugurato il 13 gennaio 2016 con una progettualità multidisciplinare. Un terzo spazio in apertura, a New York (data non dichiarata, ma sembra a breve). Ciò che emerge è un format inedito tra un’azienda (che produce scarpe e borse), degli show room dedicati per una manciata di giorni alla moda e poi aperti con continuità alla programmazione artistica e ora anche multidisciplinare tutto da scoprire.
Le magicien di ciò è Mirko Rizzi che entra a far parte di Marsèll nel 2005 immettendo una modalità irreverente, disordinata e inaspettata nel sistema della moda e del suo marketing. Molti gli spostamenti, gli impegni, le responsabilità e le strategie da seguire, tanto che Mirko ha deciso di non viaggiare più in automobile “troppi viaggi, troppi pensieri, troppe distrazioni”, ma di usare solo il treno e lo scooter. E intanto nell’arte mantiene sin dall’inizio contatti personali con gli artisti che individua secondo liberi interessi e con i quali condivide progetti, produzioni e ricerca. È così che Marsèlleria #01 è cresciuta in fretta, quasi giocando a nascondino tra le gallerie e le fondazioni milanesi, senza dichiarazioni o impalcature di sistema. Arte, musica, cinema, incontri: sempre qualcosa d’imprevedibile, mai l’artista che ci si sarebbe aspettato, nessun progetto da vetrina e spesso con autori che fanno ricerca senza il sostegno del mercato.
Con uno stile leggero e insieme consistente, come in un gioco scanzonato ma determinato, Marsèlleria è diventata uno spazio per l’arte nel quale le persone – artisti, pubblico, curatori – si incontrano in maniera informale e curiosa. Facciamo una domanda a Mirko Rizzi e un’altra a Davide Savorani che apre lo spazio di Marsèlleria #2 a Milano pere farci dire da loro stessi qualcosa in più.
Mirko, hai già raccontato le tue passioni, spontanee e da autodidatta per l’arte contemporanea. Ora però la scommessa sembra spostarsi in un impegno che sottende una strategia, compresa quella della sua assenza o indeterminatezza (apparente o reale che sia), come sembrano indicare i tre piani di Marsèlleria in Via Privata Rezia. Non ami parlare in pubblico, non lasci trasparire le tue intenzioni quasi che il caso le dominasse sino all’ultimo istante, ma ci dici come vivi il rapporto tra il lavoro in azienda e le attività nell’arte? E che cosa stai cercando nell’arte?
Mirko Rizzi: «Nella bidimensionalità del nostro tempo, credo ci sia obbligatoriamente un tempo per riflettere sovrapposto alla necessità di concretizzare. Cercando di preoccuparsi il meno possibile delle conseguenze e sfuggendo per il possibile alle logiche, magari di qualcuno che non conosciamo e non sappiamo neanche se esista. Perciò otto ore a testa alta tra le nuvole, otto ore a testa bassa a creare e otto ore a riposare. Sono socio di altre quattro fantastiche persone e non ho la più pallida idea del perché condividano, approvino e supportino. Ognuno di loro forse per un motivo diverso che al fondo nemmeno conosco, ma se ci preoccupiamo sempre del perché, spesso perdiamo solo del tempo. La visione è necessaria, lo è sempre stata. Ma la visione per i visionari non è uno sforzo così grande, invece è da veri coraggiosi e pazzi credere nella visione di qualcun altro. Per quanto mi riguarda direi: stiamo ai margini, gustiamoci l’osservazione, discostiamoci dalla macchina del protagonismo, rifugiamoci lontano, guardiamo il cielo e gli amici, pensiamo a noi ma non solo, riconosciamo le sintonie, ascoltiamo le musiche. Osserviamo. Le azioni sono la manifestazione di molti pensieri e devono semplicemente servire a riunire sotto un grande ombrello pensieri e pensatori simili. Mi piacerebbe essere un ombrellaio e morire da utopista, senza riuscire a concludere qualcosa. E questa sarebbe la vera morte. Saremmo veramente pazzi nel chiudere una qualsiasi tra le possibilità, quindi inneschiamo congegni e macchinari, ma anche frane. E, nel farlo, circondiamoci di anime vicine e lontane: sbaglieremmo comunque, ma evitiamo la paura».
Il progetto con cui Davide Savorani apre lo spazio Marsèlleria #2 a Milano ha un titolo curioso: Stressed Environment. Si tratta di elementi installativi che negano la staticità e la bidimensionalità per prediligere il movimento, il suono e una narrazione che procedere per pensieri liberi. Compaiono luci calde da cantiere, tubolari metallizzati, maschere e sacchi in pvc e light box che con luci fredde ci restituiscono, mediati, i disegni dell’artista. Ma soprattutto, nella parte buia e celata dello spazio si può distendersi per ascoltare “la voce” che, con suadente recitazione episodica, ci restituisce un flusso di coscienza trasformato in una guida per superare le idiosincrasie del quotidiano. La noia è, infatti, il punto di partenza al quale l’artista reagisce mediante osservazioni e analisi e alla quale risponde in mostra proponendo oggetti industriali trasformati in elementi per esercizi fisici a cui si aggiunge la voce – guida che riesce quasi a ipnotizzarci con racconti rapsodici.
Davide, ci parli della noia, e della tua noia?
Davide Savorani: «All’inizio pensavo che la mia noia fosse esclusivamente situativa: aspettare qualcuno o ascoltare una lecture, sperando che finisca il prima possibile. Cosa faccio durante questa attesa? Mi spazientisco, sbuffo, mi annoio. Ma che vuol dire? Sono partito da queste domande, ho iniziato facendo attenzione ai gesti e alle azioni compiute nel riempire quelle parentesi di tempo. Ho scoperto che la noia non è una, ma sono tante; ne esiste una creativa, una esistenziale, una indotta dalla sazietà. Cambia costantemente forma, secondo il punto di osservazione. Mi sono reso conto di avere prodotto moltissimo in alcuni momenti che avrei definito noiosi, o di aver sentito il bisogno di nutrirmi di storie che non fossero la mia. Opzioni: binge watching o iniziare lunghe conversazioni virtuali, che sì, possono anche finire in una sega solitaria a lume di iPad. Esiste una forte relazione tra sesso e noia. Si scopa moltissimo per noia, anche per dimenticarsi temporaneamente della solitudine. Capisci quanto è stratificato uno status che inizialmente avrei definito con 140 battute? La noia è estremamente personale e intima. È come un muscolo che ciascuno di noi ha, un muscolo che dimentichiamo di allenare o che stressiamo troppo. È indispensabile. Nell’ultimo anno ho avuto moltissime conversazioni sull’argomento, soprattutto con sconosciuti/e incontrati on-line.
Le diverse reazioni hanno disegnato altrettanti scenari che ho cercato di percorrere mentalmente, calandomi temporaneamente nei panni di queste persone, nelle loro noie (Alcune delle conversazioni qui citate da Davide Savorani sono rintracciabili nel blog: www.thecantgetawayclub.wordpress.com. n.d.r.). Questo coro eterogeneo e cacofonico mi ha accompagnato in un viaggio introspettivo. Scomodo, ma necessario. In quel viaggio ho riscoperto il valore della vulnerabilità e il rapporto conflittuale che ho con la solitudine: una bestia che temo profondamente, ma di cui non riesco fare a meno».
Paola Tognon