“Materia” molto contemporanea

di - 27 Novembre 2017
Negli ultimi tempi alcune mostre hanno illustrato il rapporto tra archeologia e arte contemporanea in maniera interessante, come “La forza delle Rovine” al Museo Altemps di Roma, curata da Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro o “Par tibi, Roma, nihil”, all’area archeologica del Palatino, ancora nella Capitale, a cura di Raffaella Frascarelli, ma nessuna ha affrontato questo tema con la complessità di “Pompei@Madre. Materia Archeologica”, curata da Massimo Osanna e Andrea Viliani.
«Una mostra nata un anno fa, durante la mia visita ai depositi di Pompei – racconta Viliani – quando mi furono mostrati i reperti danneggiati dai bombardamenti anglo-americani sulla città campana nel 1943, definiti appunto come “materia”. Con Osanna abbiamo immaginato di presentare questi materiali, mai esposti al pubblico, in un contesto che analizzasse la forza evocativa e simbolica di Pompei per la cultura artistica attuale». La struttura della mostra ha suggerito una divisione su due livelli: il primo piano ospita la sezione intitolata Il museo come domus contemporanea, curata da Osanna, mentre al terzo piano troviamo Il museo come macchina del tempo, ordinata da Viliani insieme a Luigi Gallo.

Pompei@Madre. Materia Archeologica, veduta della mostra, Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.

Nella domus contemporanea gli archeologi hanno collocato, con un allestimento non invasivo, una serie di reperti in dialogo con le sale degli artisti: si misurano con gli affreschi di Clemente gli arredi di un tablinum, dove si svolgevano gli incontri ufficiali, tra cui un triclinio, uno scaldavivande e una lucerna fallica, mentre nella sala con il fregio di fango di Richard Long troviamo gli utensili da cucina. Tra i dialoghi più originali i reperti danneggiati dal calore della lava nella sala con il cielo accartocciato di Luciano Fabro, e le statuette delle divinità che emergono dal vuoto abbinate a Dark Brother, il buco nero presente nella sala di Anish Kapoor. Altrettanto suggestiva ma più complesso e ricca di rimandi la sezione al terzo piano, dedicata all’importanza di Pompei intesa come topos, luogo simbolico al di là di ogni temporalità, che Viliani definisce «cortocircuito intellettuale della modernità in essere», creando stimolanti paralleli tra Goethe e Freud, Winckelmann e Benjamin, Le Corbusier e Settis, sotto il segno di Pompei, città archeologica e contemporanea allo stesso tempo.

Pompei@Madre. Materia Archeologica, veduta della mostra, Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli. Foto © Amedeo Benestante.

E non è un caso che questo percorso circolare nel tempo e nello spazio prenda il via da alcuni diari di scavo del Settecento allestiti, insieme ad alcuni strumenti di lavoro e da una cartografia fotografica dello scavo eseguita nel 1910 da un pallone aereostatico, intorno a quattro massi di Adrian Villa-Rojas, riallestiti dall’artista per l’occasione. Felici e stimolanti cortocircuiti, valorizzati dall’accurato allestimento di Lucio Turchetta, che si ripetono in quasi tutte le sale della rassegna, ognuna dedicata ad un tema: si va dalla piccola biblioteca di archeologia e futurologia (sala 1) con testi che vanno da Piranesi a Pawel Althamer, all’Atlante Iconografico (sala 4) con un interessante dialogo tra un disegno a tratto della Battaglia di Iseo, un mosaico conservato al museo Archeologico di Napoli, eseguito nell’Ottocento da Giuseppe Marsigli, e Swallow me, From Italy to Flanders; a Tapestry (2015), il sorprendente arazzo eseguito da Laure Prouvost durante una sua residenza nella città partenopea . Le sale 5 e 6 sono incentrate sul rapporto tra le composizioni di affreschi pompeiani (un giardino del I secolo D.C. e la Venere su quadriga trainata da quattro elefanti (anch’essa I sec. d.c) e le raffinate opere di Haris Epaminonda, insieme ad una fotografia di Nan Goldin (Pompei interior, 1996) e cinque dipinti del 1994 di Padraig Timoney.
Il cuore della mostra è la sala dedicata all’eruzione del 79 d.c., che Viliani ha risolto con una serie di vedute dipinte da artisti tra Sette e Ottocento, che si conclude con il Vesuvius (1985, in home page) di Andy Warhol e Untitled (2017) di Wade Guyton; al centro due grandi vasche piene di materia archeologica pompeiana, lapidea e ceramica, che rimandano al titolo della rassegna.
Le sale successive parlano di morte di oggetti e persone, e sono dominate da installazioni drammatiche come Petrified Forest (2003) di Jimmie Durham o gli armadi pieni di ossa umane provenienti dagli scavi condotti nel 1800 a Pompei fino alla serie fotografica di Pani/Crani (2009-2013) di Antonio Biasiucci, accostate alle sculture antropomorfe di Nairy Baghramian (Owl, 2007). Alcune opere sono citazioni dirette di materiali riprese da artisti come Allan McCollum (The dog from Pompeii,1993) in dialogo con le opere recenti di Roberto Cuoghi (Ether on flocons, 2016-17), mentre i resti di cibi ritrovati sotto la lava sono accostati ai vasi di fiori con i ritratti di grandi personaggi della storia, realizzati da Goshka Macuga (2016) in un confronto diretto tra organico e inorganico.
Il finale è affidato a Maria Thereza Alvez, che ha creato un giardino con le piante che crescono a Pompei: un segnale simbolico che apre alla seconda tappa del progetto Materia Archeologica, che vedrà alcuni artisti internazionali (da Pierre Huyge ad Anri Sala, da Lara Favaretto a Anselm Kiefer) realizzare opere con materiali archeologici a partire dal 2018.
Una riscoperta di Pompei all’insegna di una giusta e proficua commistione tra passato e presente, dove all’arte contemporanea spetta il ruolo di riattivare le rovine per proiettarle verso il futuro . Un segnale profetico che si potrebbe applicare a buona parte del nostro patrimonio artistico, che giace abbandonato in attesa di una rinascita, lucida e feconda come questa.
Ludovico Pratesi

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