La storia
Cosimo I de’ Medici nel 1545 commissionò 20 arazzi con le storie di Giuseppe Ebreo per decorare il Salone dei Duecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Il patriarca Giuseppe è cacciato dalla famiglia e dunque protagonista di mille spiacevoli traversie, tra sogni e avventure quasi picaresche – «una enorme storia a fumetti» azzarda il Prof. Louis Godart, Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico del Presidente della Repubblica Italiana e curatore della mostra “Il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, che apre oggi. Alla fine ne esce più forte e potente, anche nel saper perdonare i fratelli traditori: ottimo modello dunque per legittimare politicamente i Medici e Cosimo I, diventati infine Duchi, nonostante più volte cacciati da Firenze.
Gli arazzi rappresentarono l’occasione per una sinergia tosco-fiamminga: i cartoni di Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati vennero infatti tessuti nelle manifatture medicee da Jan Rost e Nicolas Karcher, già arazziere dei Gonzaga, utilizzando fili di lana, di seta, d’oro e d’argento. Poi, nel 1882, vennero divisi tra il Quirinale e Firenze per volere dei Savoia, e mai più riuniti insieme. Fino a oggi.
Fino al 12 aprile infatti, nella suggestiva e silenziosa Sala dei Corazzieri, si potranno ammirare i mastodontici panni (6 metri di altezza circa, stesi farebbero 400 mq) e le tipiche formule del Manierismo riportate alla loro originaria e vivace colorazione.
I soldi
Dietro l’operazione ci sono importanti sponsor privati che hanno permesso il restauro e l’esposizione dei delicatissimi arazzi. Finalmente, sembrerebbe, un caso in cui l’intervento privato non solo non è arrogante e superficiale, ma è addirittura proficuo. Ad esempio il restauro dei 10 arazzi fiorentini è stato finanziato dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze con un milione e 100mila euro nel corso di 27 anni, investiti anche per creare nuove competenze professionali nell’Opificio delle Pietre Dure.
Di poco seguenti i restauri di quelli del Quirinale: iniziano nel 1996, in totale si calcolano circa (secondo le stime del prof. Godart) 119mila ore di lavoro certosino e altamente qualificato.
Altro forte sponsor sostenitore dell’impresa è la Fondazione Bracco, interessata alla qualità del “saper fare” italiano, caratteristica sia degli arazzi stessi, sia del lavoro di restauro su di essi. Ma è Gucci a fare la parte del leone, trovando negli arazzi «molte caratteristiche dello spirito e dello stile contemporaneo della Casa», e finanziando massicciamente l’opera con 340mila euro raccolti attraverso il Gucci Museo di Firenze.
Il ritorno d’immagine
La mostra, lasciata Roma, proseguirà itinerante per Milano, dove occuperà la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, e sarà poi a Firenze, che celebra quest’anno i 150 anni di Firenze capitale, dove finalmente gli arazzi riposeranno insieme nella loro sede originaria Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio, prima di separarsi di nuovo.
Il 2015 è anche l’anno dell’EXPO, la visibilità è altissima, ma se gli sponsor avranno di certo un rientro di immagine bello grasso, bisogna dire che la partita è ben bilanciata. Oltre alla crescita dell’Opificio Pietre Dure e al miglioramento dei suoi già elevati standard di eccellenza, e oltre al restauro costosissimo ma eccezionale degli arazzi, si tratta di un’operazione che promuove l’immagine dell’Italia all’estero in modo forte e elegante nel momento in cui molti occhi internazionali sono puntati sul Belpaese.
Il rispetto
Inoltre, a differenza di altri casi in cui cultura e privato sembrano felicemente convolare a nozze ma in realtà nascondono bieche operazioni di vampirismo, in questo caso si nota anche un grande rispetto storico-filologico dei manufatti, mai sradicati dal loro contesto, ma anzi di nuovo inseriti nel contesto storico-geografico originario, se pensiamo al Salone dei Duecento, peraltro restaurato anch’esso e portato a norma per l’occasione, sempre grazie a Gucci, radicatissimo nel territorio. Si tratta, insomma, di un’operazione in armonia con questo, che non rapina, ma anzi arricchisce il patrimonio dei beni culturali, inteso anche nei suoi aspetti di fruizione, tutela e conservazione.
Manca in troppe circostanze il rispetto ultimamente, e a noi, il rispetto, ci piace.