Dopo la recente tappa al MoMA di New York e l’esposizione al Festival di Arles arriva alla Triennale di Milano “The Ballad of Sexual Dependancy” della fotografa statunitense Nan Goldin (Washington 1953).
E già l’intrigante titolo e l’immagine che l’accompagna fanno intuire a noi spettatori, come Nancy Goldin non sia mai stata una di quelle ragazze che ha subito ed accettato di buon grado il perbenismo e la pesantezza che la società troppo spesso impone. È andata contro al “non si fa” , al ” non si deve” , al “non sta bene”, ha abbandonato ogni maniera presentando una serie di oltre 700 immagini, un capitale work in progress, che ha inaugurato una nuova concezione squisitamente autobiografica della fotografia.
Perché sì, la fotografa da quasi 40 anni, ha iniziato a prendere appunti sulla sua vita con una macchina fotografica. Tra biografia e ricerca artistica ha creato un’opera immersa in cui abbraccia ogni momento della sua quotidianità e del vissuto fuori dagli schemi.
Un filmato di 45 minuti circa, uno slide show narrativo che registra passo a passo la parabola esistenziale della fotografa e dei suoi amici, seguendo un ordine lineare che scandisce il normale ritmo biologico.
Nan Goldin, Couple in bed, Chicago 1977
Ed ecco le serate estreme nei club di New York, le scorribande in giro per Berlino e Londra, e una combriccola di “anime”, amanti, attimi agli antipodi, tra ecstasy, edonismo, lussuria e violenze domestiche di ex fidanzati aggressivi. Artisti per noi riconoscibili, come Andy Warhol, Keith Haring, Debby Harry e una folta schiera di personaggi anonimi che vivono, si sposano e muoiono.
Nan, nella serie filmata registra meticolosamente le sequenze esistenziali emotive umane come la nascita, la crescita, gli entusiasmi giovanili e perfino le sensazioni del divenire vecchi; fortuna che purtroppo non tutti hanno, tanto che l’intera Ballata è dedicata dall’artista americana alla sorellina, morta suicida prematuramente sulla soglia dei vent’anni.
Un diario visivo autobiografico ma universale; corale ed intimo al tempo stesso, che mostra la complessità dell’essere umano dal carattere controverso e contraddittorio.
Una giusta descrizione del “Fenomeno Goldin” è il titolo della prima grande retrospettiva che il Whitney Museum di New York le aveva dedicato, e che coincide con il il titolo della celebre canzone dei Velvet Underground registrata insieme a Nico: I will be your mirror.
Nan Goldin, Self portrait in kimono with Brian, NYC, 1983
E Nan Goldin, davvero, è stata come uno specchio che ha riflettuto, senza pensare e mistificare gli oggetti del suo raggio visivo. Con un occhio malinconico (reso tale anche grazie alle canzoni che accompagnano le immagini) e assolutamente amorale ha immortalato la vita di una piccola cerchia di giovani figli del loro tempo. Maschi, femmine, trans, drag queen, gay e punk che si divertono, scopano si drogano si innamorano e si disinnamorano. Un intimo flusso e riflusso di corpi in cui “gli anni della festa” sfociano in una vera e propria dipendenza resa teatrale grazie all’obiettivo della fotocamera
E le immagini che ne sono nate non sono necessariamente belle, pulite, speciali e luminose come altre che abbiamo avuto modo di vedere, ma Nan non ha alcuna intenzione di scusarsi a riguardo.
Perché è proprio la vita in sé la sostanza più stupefacente del mondo che titilla e seduce, che eccita ed intriga. Che a tratti ti deprime e ti distrugge.
Ma fa tutto parte del gioco ed è proprio questo quello che Nan Goldin cerca di trasmettere con le sue fotografie delicate e crude.
In qualsiasi modo tu sia, va bene così .
When you think the night has seen your mind
that inside you’re twisted and unkind
let me stand to show that you are blind
please put down your hands
’cause I see you
I’ll be your mirror (reflect what you are)
Maria Vittoria Baravelli