51 anni dopo la morte di Piero Manzoni, una mostra antologica di 130 opere esposte a Palazzo Reale (a cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo in collaborazione con la Fondazione Manzoni, fino al 2 giugno) sfata troppi luoghi comuni intorno al personaggio, già mito dell’artista ribelle. Una rassegna completa, che segue di qualche anno quella allestita al Madre di Napoli per la cura di Germano Celant, che racconta le sperimentazioni del genio milanese d’adozione, ma nato a Soncino nel 1933 e scomparso prematuramente nel 1963.
Nel 1957, Manzoni si avvicina al Movimento dei Nucleari, firma un manifesto Contro lo stile, redatto da Dangelo e Baj, quando a New York spopolava il New Dada, aprendo la strada alla Pop Art, e Yves Klein esponeva i monocromi blu nella galleria milanese Apollinaire.
Questa mostra esaustiva, concepita senza sbavature, che si apre con la fotografia in bianco e nero dell’enfant terrible dell’arte italiana ritratto con una sensuale modella nuda su un piedistallo, come una statua antica, con l’aria di bravo ragazzo di buona famiglia, dal volto paffuto, tradito dallo sguardo vispo, curioso, intelligente, è necessaria per fare il punto sul valore dell’innovazione della sua ricerca in ambito europeo.
Oltre alle opere degli esordi e quelle più note, l’esposizione comprende anche documenti, manifesti, fotografie, bozzetti, cataloghi, lettere, cartoline. Prove della sua febbrile attività che arriva anche all’estero (mentre in Italia non è compreso), grazie alla fitta rete d’amicizie e di relazioni con Heinz Mack, Otto Piene e altri artisti tedeschi interessati all’azzeramento dell’arte e al superamento dell’idea di superficie verso una nuova spazialità. Artisti con i quali Manzoni condivide le ricerche innovative in bilico tra provocazione e rigore concettuale.
Alla fine degli anni Cinquanta, l’avanguardia milanese ruotava intorno al bar Jamaica nel cuore di Brera e al padre intellettuale di un’intera generazione, Lucio Fontana, autore del Manifesto Spazialista (1947), dei buchi e dei tagli, mentre in Francia si diffondeva il Nouveau Realisme e in Germania il gruppo Zero rivoluzionava il concetto di arte.
La prima sala a Palazzo Reale, espone opere degli esordi nell’ambito della pittura organica, informale, in cui si riconoscono forme germinali e antropomorfe in sintonia con Carl Gustav Jung e con le ricerche del Movimento di Arte Nucleare, guidato da Enrico Baj e Sergio Dangelo, fluttuanti tra una materia spessa di pittura, l’organicità del segno, i catrami e gli smalti. Manzoni supera i nuclearisti con gli Achromes, quadri–scultura bianchi, tele grinzate imbevute di caolino e colla, cotone idrofilo a quadri, panno cucito, michette applicate al supporto. Poi dal ’61 utilizza batuffoli di ovatta e superfici pelose di fibre artificiali, anche di pelle di coniglio, peluche, polistirolo espanso, impregnate di cobalto che cambia colore con il variare del tempo. Queste opere-oggetto tendono alla totalità infinita e illimitata. Algide e dal fascino irresistibile, introducono una linea analitica e concettuale dell’arte italiana che si sviluppa negli anni successivi. Le sue opere bianche, dopo l’irruzione dei monocromi di Klein sulla scena artistica milanese, innestano riflessioni sulle potenzialità espressive del colore, inteso come mezzo, dall’emotività intrinseca al materiale stesso, valorizzando il processo artistico.
Nelle altre sale, un po’ troppo stipate di opere e di bacheche, che avrebbero bisogno di più spazio, spiazzano per rigore concettuale, in particolare, le linee sigillate nei contenitori cilindrici neri, prima più corte poi sempre più lunghe, con tanto di etichetta che riporta metri, data e firma dell’artista. Nel 1960, a Herning, in Danimarca, Manzoni realizza Linea lunga di 7.200 metri contenuta in un enorme cilindro di zinco ricoperto di fogli di piombo, ospite dell’industriale suo mecenate Aage Damgaard. Scrive Manzoni: «Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione: nello spazio non esistono dimensioni». Progetta poi anche una linea lunga come il meridiano di Greenwich che però non farà in tempo a realizzare. Insieme a Enrico Castellani, Manzoni fonda a Milano Azimuth (1959), nata con l’omonima galleria, scritta senza la lettera “h” finale, in via Clerici, dove si dibatte sulla nuova concezione dell’arte. E provocano una pluralità di riflessioni sull’arte Fiato d’artista, palloncini sgonfi adagiati su base di legno, le sue “sculture pneumatiche” o Corpi d’aria che rimandano all’idea del soffio vitale, primo principio creativo. Per Manzoni la vita è una forma d’arte, come sintetizza nella sua frase: «C’è solo da essere, c’è solo da vivere».
Come le Linee, anche i Corpi d’aria si presentano come prodotti seriali di consumo, realizzati in numerosi esemplari, multipli, anche se ogni pezzo mantiene un carattere di unicità e la confezione evoca la Boite-en valise (1941) di Duchamp.
In mostra vi è anche un’opera dove tutti, una volta nella vita; vorremmo salire: si tratta della Base magica (1961), piedistallo che campeggia al centro della sala e che trasforma qualsiasi persona o oggetto in opera d’arte certificata dalle Carte di autenticità. Ricordiamo che tra le sculture viventi firmate Manzoni, ci sono Umberto Eco e Mario Schifano. E in mostra compare anche le Socle du monde (base del mondo), piedistallo capovolto che supporta e trasforma il mondo in una scultura e la vita in arte.
Ma non basta. Manzoni traccia una sorta di autoritratto prima con le uova sode con la sua impronta digitale, realizzate dal 1960, date da mangiare al pubblico in occasione di una mostra a Copenaghen, poi a Milano nella Galleria Azimut, dando luogo a un happening in cui il pubblico è protagonista: Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte. L’anno seguente lo scandalo, Manzoni mette in discussione il ruolo dell’artista e il concetto di opera con la Merda d’artista, 30 grammi di escrementi organici in 90 scatolette di latta, di 6 centimetri di diametro, simili a quelle della carne in scatola, vendute a peso d’oro (a 700 lire al grammo, prezzo dell’oro all’epoca) per “30 grammi di prodotto netto, conservato al naturale”, come si legge sull’etichetta. L’opera, sull’onda della produzione seriale e del packaging, prima del boom economico e le scatole di lucido delle scarpe di Andy Warhol, oggi vale più di 100mila euro.
Palma Bucarelli, leggendaria direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, le espone a Roma nel 1971, quasi dieci anni dopo la morte dell’artista, in occasione di una mostra personale, provocando scandalo, le immancabili polemiche e addirittura un’interrogazione parlamentare.
Peccato che Manzoni fosse morto e non potesse spiegare che la merda in scatola “non olet”, quanto quella a cui pensano i conformisti di tutte le epoche. Non è un caso che, in occasione di questa mostra, la scatoletta è stata riprodotta sui manifesti e sui gadget, inclusa la replica di 9mila Merda d’artista identici a quella reale prodotte dalla Fondazione Manzoni, in vendita nel bookshop a 35 euro, accompagnata da un esilarante libricino Breve storia della Merda d’artista, firmato Flaminio Gaualdoni (Collana SMS,Skira): cimeli di materialità che hanno già scatenato nuovi collezionisti e collezionismi.