Milano non da bere

di - 30 Marzo 2014

La vigilia di Miart era  iniziata lunedì al Pac a Milano con Regina Galindo: “Estoy viva” (a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola). Il nodo è, come sempre, la  proprietà transitiva della complicità. Nulla sta fuori di noi. “Estoy viva” è la risposta che lei, con le donne di tutto il mondo, mette in prima pagina. Spesso si preferisce pensare che la violenza sia un’eccezione, e non il cuore del conflitto uomo-donna, su cui si è configurato il dominio del potere, del denaro, degli affetti, delle religioni, degli Stati. Galindo ne fa esperienza sul proprio corpo e per proprietà transitiva la facciamo anche noi mentre assistiamo allo spettacolo orribile della complicità. Lunedì sera la performance è virata sul pubblico in modo anomalo. L’anestesia, che doveva addormentarla fino a raggiungere la figura di morte presunta, non ha funzionato subito. Il suo corpo si è opposto, ha vinto la dichiarazione: “Estoy viva”, “Resto sempre sveglia”. L’attesa del pubblico è diventata la performance: la morte, non ha tempi  prevedibili e l’attesa non è determinabile. Questa era la percezione che serpeggiava. Alla fine siamo sfilati davanti a lei, rannicchiata su una pietra tombale, sotto una coperta rossa. Il suo respiro, come previsto, lasciava traccia su uno specchietto e l’immagine veniva proiettata fuori dalla stanza –tomba. Un imprevisto che ha messo ulteriormente in luce come il corpo sia il tramite dell’incontro, dello scontro e un cruciale avvertimento per “spiegare” femminicidi, omicidi per mani mafiose di uomini, donne, bambini, violenze economiche, ormai quotidiane.

Martedì, Cildo Meireles con le sue eccelse Installations (Hangar Bicocca a cura di Vicente Todoli),  ha alzato il livello dell’immaginazione. Una mostra eccezionale, che si può vedere solo qui. Solo qui lo spazio è tale da diventare metafora dell’infinito in cui l’arte individua le proprie immagini. L’euforia è grande, perchè la guida di Meireles, ricchissima di segnali, di giudizi critici, autorizza l’improvvisazione. È un viaggio e, come tutti in tutti i viaggi, c’è una soglia da attraversare: il labirinto trasparente, luminoso e fragile, di Atraves, 1983-1989, scricchiola sotto i piedi. Il pavimento è di vetro. Le reti leggere, la grande bolla luminosa di cellofan, i paletti di legno provvisori, le vasche con piccoli pesci, non sono la metafora della rivoluzione a cui non si può che aderire o opporsi, sono i mille punti della vita che nell’attraversarli si spezzano. Mi è sembrato  fantastico che invece del “tetto di vetro”, simbolo della gerarchia, ci fosse un pavimento sul quale non si può che camminare. Anche ciò che sta sotto di noi ci condiziona e i sentieri della vita sono materiale friabile. Quando entro in Cinza, 1984- 1986, ho lo shock di trovarmi avvolta dalla testa ai piedi dal disegno. Due stanze contigue, in una il pavimento è di carbone, pareti e soffitto di tela bianchi sono ricoperti di segni neri; nell’altra il pavimento è di composto da migliaia di gessi da lavagna, pareti  e soffitto  sono neri e ricoperti di segni bianchi. Questa è l’emozione a tutto tondo dell’arte. La capiamo subito tutti.

Il viaggio, che avevo intuito all’inizio,  si manifesta in una straordinaria, enorme lampada cinese, che evoca il cinema, dove in un mare infinito naviga in continuazione un veliero attorniato dai gabbiani di cui si sente lo stridìo. Abajour, 1997 -2010.  La lanterna è manovrata a mano da tre persone che azionano un timone, lo si scopre quando ci si affaccia al parapetto di questo mare in una stanza. Sogno perché il mare è simbolo del viaggio omerico, ma anche dramma perché il veliero è simbolo delle spedizioni coloniali del XIX secolo.
L’infinito dell’arte e l’infinito del mare converge in uno straordinario pontile, che si avvista da lontano, Marulho, 1991-1997 e prima di questo si manifestano, come epifanie, altre “opere – stanze” in cui camminare nell’arte per riconoscere i sentieri della vita, di cui Exibart vi parlerà a breve più in dettaglio.

Torniamo alla settimana di miart, la cui vigilia era iniziata, in realtà, qualche giorno prima a Genova. Qui è arrivato Superstudio con La moglie di Lot, metafora dell’architettura che se guarda indietro, diventa di sale e si scioglie con l’acqua. Una profetica visione del territorio italiano di oggi. La “scultura teorica”, La Moglie di Lot (presentata da Superstudio nel 1978 alla Biennale di Venezia), è composta da un tavolo su cui si trovano i modelli in sale di alcuni edifici topos: la Piramide, l’Anfiteatro, la Chiesa, il Palazzo di Versailles, il Padiglione dell’Esprit Nouveau. Una struttura mobile, da cui pende un tubo da fleboclisi, viene spostata progressivamente sopra ogni singolo modello, l’acqua scende e li scioglie uno dopo l’altro. Appaiono gli oggetti che concludono il sottotesto teorico. Dalla piramide emerge un intrico di fili di ferro. Dall’anfiteatro, un insediamento abitativo in gres come a Lucca, Arles, Nimes. Dalla Chiesa, un uovo come in Piero Della Francesca. Da Versailles, la briosche di Maria Antonietta. Dal padiglione dell’Esprit Nouveau, la targa “l’unica architettura sarà la nostra vita”. La profezia di questa frase non si è avverata. Anzi tra il 1978 e il 2008 l’architettura è diventata monumento per antonomasia, il socio naturale del potere finanziario, e la forma di aggressione del cemento sul territorio. Cosa significa riproporre oggi l’opera dei Superstudio? Nostalgia per lo sguardo degli anni 70? Non diventeremo di sale se metteremo in pratica lo slancio critico? E da dove ripartire? Dai luoghi normali dell’esperienza, quindi se siamo nell’arte, si riparte dalle gallerie. Come ha fatto Pinksummer di Genova, che ha recuperato i disegni e le foto e ha rieditato Il Tavolo di Lot, che andrà a giugno alla Biennale di Architettura di Venezia.  È un segno trasversale che ci fa intuire la necessità di critica e autocritica.

L’utopia di Superstudio avverte che la critica radicale non riguarda il futuro, ma il presente. Il loro “errore di previsione” rispetto “All’architettura siamo noi” pone la domanda: che fare di tutti gli edifici nati con la bolla edilizia? È una coincidenza molto significativa, per citare Jung, che Il Tavolo di Lot appaia in Liguria dove ad ogni pioggia si liquefanno case, “fasce”, e perfino binari ferroviari.
Presentando Miart, dire che bisogna ripartire dalle gallerie, sembra un ossimoro. Ma è, invece, una coincidenza significativa che riguarda il territorio italiano, questa volta artistico. Negli anni della previsione sbagliata di Superstudio, il sistema internazionale si è rafforzato, mentre in Italia si è indebolito, non solo perchè alcune gallerie hanno chiuso, i musei sono sull’orlo di una crisi di esistenza, i soldi scarseggiano e le vendite pure, ma anche perchè non appare una decisa volontà di ricerca sulla realtà artistica italiana. Funziona solo quella che è già accreditata all’estero. Ma, parafrasando Beuys (e ancora gli anni ’70), l’arte siamo noi, quindi o si guarda al proprio interno o si evapora.

Nella Galleria Renata Bianconi di Milano molti artisti sono italiani, ad esempio Luigi Presicce o il malese-italiano Lim, che a Roma con il suo progetto, Edicola Notte, è diventato un’eccezionale calamita. Alla sua inaugurazione, giovedì 20 marzo, era pieno di studenti, di critici, curatori, artisti di varie generazioni e provenienze. C’erano Garutti, Luca Pancrazzi. Liliana Moro, Sisley Xhafa  (venuto da New York), Regina Galindo, che stava lavorando al Pac. Da tempo questa galleria è un appuntamento in città, come miticamente negli anni ’70. Certo se gli artisti sono italiani amici e i followers sono quindi più vicini e numerosi, ma di per sè non basterebbe se non ci fosse anche un’indicazione di possibile novità. Lim ha disteso sul pavimento della galleria dei tappeti in pvc con le facce degli anchormen televisivi italiani e volti noti della politica spettacolo. Una piccola, grande soddisfazione che per una volta fossero sotto i nostri piedi. E una bella metafora sono i suoi  tre dipinti di una iena abbinata a frasi fatte della politica, tanto che non era necessario riconoscerle. Ma la sua iena non è feroce, è triste, assorta, tenera:  l’animale simbolico della cattiveria perde i suoi artigli.

Anche Riccardo Crespi (Milano) dedica spesso attenzione all’Italia, giovedì 20 marzo ha presentato l’israeliano Gal Weinstein, che, con una sequenza di quadri molto emozionanti, guarda il cielo. Lascia dentro la superficie impurità e frammenti di lana di ferro. Una specie di traduzione emotiva del pulviscolo atmosferico, ma anche il segno dell’immaginazione senza limiti dell’arte, tant’è che in un dittico, la lana di ferro è stata fatta arrugginire e quel cielo è diventato la visione di Mars, il pianeta rosso. Qualche giorno dopo Rubbia diceva, in un’intervista a Repubblica, che la sua curiosità oggi lo spingerebbe ad andare su Marte, dove una vita c’è anche se diversa da quella del nostro pianeta. È sintomatico che un artista, proveniente da Israele, indichi che è ora di andare incontro a un’altra vita, a un’altra architettura (Superstudio), a un’altra politica (Lim), e a camminarci dentro, come nel suo mosaico Marble Sun, evocazione del primo insediamento agricolo in Israele, progettato da Richard Kauffman nel 1921.
Poi, giovedì miart è iniziata davvero. Altre inaugurazioni, buone meno buone, convincenti o no, un hotel che trasloca dalla finzione alla realtà andata e ritorno, un planetario che ha fluttuato per tre notti di immagini.

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