Modena alias Düsseldorf

di - 24 Giugno 2014
L’Emilia ha un cuore che batte per la fotografia, da sempre. Come abbiamo più volte ricordato, da queste parti sono nati e cresciuti alcuni dei più grandi “obiettivi” del secondo Novecento, e ricordiamo solo Franco Vaccari, Luigi Ghirri, Franco Fontana, Olivo Barbieri. Segno che la fotografia, a Modena in questo caso, ha sempre trovato terreno fertile per germogliare e farsi strada.
Una tradizione che continua, anche a livello didattico, con quello che è il Master Biennale di Alta formazione sull’immagine contemporanea della Fondazione Fotografia, che ancora per qualche giorno mette nero su bianco i risultati delle ultime due classi di iscritti nelle sale del Foro Boario, accanto alle immagini di “Fantasmi e realtà” di Axel Hütte.
Ma di che parliamo? Di un corso biennale che prevede un intenso lavoro accanto a docenti, critici d’arte, curatori, ma anche e soprattutto artisti e fotografi chiamati a tenere workshop e seminari per far confrontare i giovani (alcuni già “operanti” nel sistema) con quelle che sono realmente le possibilità, e le problematiche, del lavoro creativo sotto tutti i punti di vista, da quello poetico e dell’ispirazione alle necessità della presentazione, del creare il proprio portfolio, o della mise-en-scene finale del lavoro.
Abbiamo visitato la mostra in compagnia di Claudia Fini, co-curatrice insieme a Filippo Maggia de “US. The summer show” degli 11 studenti del secondo anno, che ci spiega: «Molto spesso verso la metà del primo anno c’è una forte crisi: i ragazzi entrati già con un proprio bagaglio di esperienze talvolta rivoluzionano il proprio modo di lavorare, anche grazie agli insegnamenti delle varie personalità che sono con noi durante l’anno, come è stato proprio con Axel Hütte che in occasione della preparazione della sua mostra ha passato diverso tempo con gli studenti».
C’è insomma un approccio da vera scuola “professionale”, fatta di lezioni di storia dell’arte e di fotografia, e di laboratori. Tutto finalizzato alla crescita del proprio lavoro.
Sì, perché se c’è un’indicazione che si vede a chiare lettere, proprio all’interno del Summer Show, è una perfetta eterogeneità delle proposte: nessun tema comune, nessuna uniformità di genere, ma una vera e propria costellazione di stili, tecniche e sguardi. «Spesso ci sono iscritti che nel corso dei due anni diventano vere e proprie rivelazioni, mettendo a punto un lavoro inaspettato partendo quasi da zero», ci ricorda Fini, rimettendo l’accento sulla dimensione della crescita della scuola modenese.
Già, la “scuola modenese”. Ne parla così in catalogo anche Francesca Sani, mettendo in parallelo la Scuola di Düsseldorf, frequentata anche da Hütte, forse il più “nascosto” tra i celeberrimi allievi di Hilla e Bernd Becher. Quello che uscirà dalla piccola Modena, forse lo vedremo tra una dozzina d’anni almeno, e il tempo racconterà se davvero, anche di questi tempi, qualcosa di buono in terra emiliana si sta formando. Per ora, aggirandosi tra le pareti, l’impressione è decisamente positiva, anche perché, per arrivare al Summer Show, bisogna passare tra le grandi immagini “impressioniste” di Alpi, Appenini, acque e paesaggi di Hütte: «Per i giovani mettersi a confronto con il fotografo tedesco subito dopo è stata una sfida decisamente adrenalinica», chiosa Fini.
Ci sono riusciti bene Giacomo Maracchioni, nato a Modena nel 1980, che con la sua serie Mercurio ci propone una carrellata di frame in apparenza scollegati tra loro, che il visitatore deve ricomporre secondo “un percorso fulmineo che connette punti lontani nel tempo e nello spazio”: e allora ci si perde tra particolari di sale d’attesa d’aeroporto, ritratti di anziani sconosciuti (che aspettano?), macro di carne macellata, rami di alberi in fiore, pettorali muscolosi e dalle tinte quasi fosforescenti.
Con l’occhio decisamente strizzato ai grandi canoni dell’attualità, il lavoro di Maracchioni sembra essere quello più vicino alla lezione del mercato, senza nulla togliere alle immagini decisamente intriganti e che, se avete la pazienza di farvi un giro sul web, ritrovate come il continuum stilistico di altre produzioni precedenti.
Sul video Che cos’è l’arte contemporanea? della catanese Stéphanie Marletta, classe 1984, qualcuno potrà storcere il naso: la fotografa ha chiesto a una schiera di persone diversissime per professione, età, studi ed estrazione sociale di rispondere al quesito che dà il titolo all’opera. Il risultato? Silenzi, risatine, scosse di capo, sigarette accese, sguardi perplessi o in cerca di un’illuminazione. Sono gli eterni istanti che intercorrono tra la fine della domanda e l’inizio della risposta (che vengono ovviamente omesse dal montaggio), e che raccontano decisamente bene –quasi antropologicamente- che cosa si pensa della più “complicata” delle discipline della creatività.
Bell’impatto anche per il microcosmo di Filippo Luini (Varese, 1982), che attraverso Itaca in tre semplici mosse (due fotografie e un video) ci racconta dell’eterna ricerca dell’uomo nei confronti di sé stesso. Pensatore e Al planetario, le due immagini, raffigurano rispettivamente una “scultura-umana”, la cui testa è ancorata alla propria mano da un giro di nastro adesivo: è una maschera tragica e scultorea, dove Rodin ha assunto i connotati post-industriali, e dove per essere “uniti” al proprio io c’è bisogno di un aggancio che diventa una trappola del linguaggio, un po’ come osservare l’infinito celeste in una stanza, pensando di avere davanti il cielo. Isola è invece il titolo del video collegato: la storia è quella di una buccia di mandarino abbandonata su un tram di Milano, che “vaga” tra le luci della città dietro i finestrini. Dov’è la meta del viaggio? Quale approdo per l’Ulisse di oggi? Anche qui la dimensione forse è quella della semplicità, ma mescolate tutto e avrete un Summer Show estremamente godibile, e dove davvero si scoprono progetti e pensieri.
Buono anche il lavoro di Paola Pasquaretta, marchigiana classe 1987 e con un percorso allo IAUV di Venezia alle spalle. Ne L’orizzonte degli eventi mischia fotografia ed elementi scultorei per verificare come l’immagine possa diventare, attraverso la documentazione di un’azione, la traccia visibile di un “oggetto tridimensionale” transitorio e realizzato, in questo caso, tramite il proprio corpo con la compiacenza di un’apertura in un vecchio muro.
Eccoci invece alle previsioni per il prossimo anno. Vi facciamo due nomi soltanto, presenti nella piccola mostra “Mid Term”, accanto al Summer Show: Gabriele Guarisco (1984), con un’indagine sul paesaggio della luce tra interni ed esterni, lontano da nature sterminate e molto più vicino agli angoli quotidiani (e qui sembrerebbe quasi di vedere lo sguardo di Ghirri ripulito da quell’appannamento costante), e Jacopo Tomassini, nato a Roma nel 1979, con Un Paese senza, un vero e proprio foto-montaggio attraverso collage di immagini rubate alla stampa, per un racconto dell’Italia e della sua storia recente.
Difficile prevedere il futuro ma, da qui, sembra che per la fotografia vi sia una sorta di “camera chiara”, e uno sguardo ancora possibile. E i lavori sono già cominciati.

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