C’era un libro, sugli spogli scaffali dello studio di via Fondazza, che portava evidenti i segni della lettura cosciente, della frequentazione quotidiana, dell’assimilazione quasi ossessiva. Era una monografia sulle acqueforti di
Rembrandt, scritta nel 1952 da Ludwig Münz e oggi conservata nel Museo Morandi a Bologna.
Sebbene fosse scritta in inglese,
Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964) la studiò attentamente per anni, rapito – negli anni della propria formazione autodidattica, ma anche in seguito – dalla tecnica del grande maestro. Del quale giunse a possedere un piccolo nucleo di cinque incisioni, quattro delle quali conservate anch’esse presso il museo Morandi, così come il torchio di legno di quercia, il cui uso lo accomunava a Rembrandt. “
Nessuno dei soggetti di Rembrandt interessava Morandi, ma potremmo anche dire che nessuno dei soggetti di Morandi interessa Morandi. Era il ‘lavoro’ artistico che costituiva il centro della sua attività, e che gli consentiva di avere un colloquio da contemporaneo anche con un artista di tanti secoli precedente, come Rembrandt”.
Chi parla è Luigi Ficacci, il curatore della grande mostra di Morandi incisore che apre nel weekend al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. “
Morandi”, prosegue Ficacci, “
aveva dei rapporti con l’antico come pittore, che erano completamente indipendenti da quelli che aveva con l’antico come incisore. Come incisore il suo colloquio da ‘consanguinei’, come se fossero artisti suoi contemporanei, era con artisti quanto mai dissimili e non ordinabili, Parmigianino, Barocci, Annibale Carracci, Rembrandt. Quattro nomi completamente indifferenti a Morandi pittore, invece fondamentali per l’incisore, come artisti del suo tempo, e questo a ragione della specificità tecnica dell’acquaforte. Morandi provava meraviglia per i segreti del lavoro acquafortistico di Rembrandt, una condizione di stupore di tipo tecnico…”.
La mostra ordinata da Ficacci presenta l’intera opera calcografica di Giorgio Morandi, tutte le 138 acqueforti e l’unica xilografia che l’artista ha considerato rappresentative della sua arte, dopo averne eliminato un numero probabilmente assai più ampio giudicato non meritevole di essere conservato e divulgato. Opere che sono esposte rispettando l’ordine cronologico di esecuzione.
Tuttavia, poiché l’artista iniziò a rendere note le sue incisioni in tempi differenti, spesso in ritardo rispetto alle date di effettiva realizzazione, dopo radicali revisioni e secondo logiche rivelatrici della sua volontà di intervento nella dinamica dell’arte contemporanea, nel catalogo è ricostruita una cronologia delle influenze e delle reazioni del contesto artistico e critico conseguente alla diffusione pubblica delle sue opere.
Cesare Brandi scrisse che Morandi “fu portato a trasferire nella pittura a olio la stessa riduzione del mezzo cromatico a due tonalità fondamentali”…Questa dichiarazione è importantissima, ed è stata fondamentale per la mostra che un allievo di Brandi, Michele Cordaro, realizzò nel 1990 alla Calcografia Nazionale. Che fu proprio l’occasione per affrontare – nel centenario della nascita dell’artista – l’attività incisoria di Morandi nella sua autonomia, partendo dall’indagine materiale e tecnica, dalla manipolazione delle matrici in rame. Questo proprio per dimostrare questo assunto di Brandi, che fu uno dei primi interpreti di Morandi a individuare nella sua produzione incisoria un’autonomia linguistica assolutamente equivalente a quella della pittura.
Insomma, come si configura, in Morandi, il rapporto fra pittura e incisione?La mostra di Ferrara è in strettissima contiguità, sia geografica che temporale, con la grande mostra di Morandi pittore del Mambo, a Bologna, proveniente da New York. E vuole essere un’opportunità di mostrare tutta l’opera grafica, evidenziando la ricerca che nell’incisione Morandi svolge assolutamente in parallelo. Spesso provando nell’incisione le sue ricerche di valori formali, valori in senso cromatico, la sua riduzione del complesso figurativo a valori di chiaro e di scuro, variati a seconda della frequenza del segno. Non possiamo dire che questo preceda la pittura, perché anche la pittura ha una sua autonomia linguistica molto forte; però sicuramente è una ricerca parallela, autonoma, che Morandi – e questo è interessante – tiene molto riservata, mostrandola soltanto in momenti che ritiene strategici.
Scorrendo la biografia di Morandi, si nota come egli si dedicasse all’incisione secondo scansioni temporali ben delineate. Per due anni ad esempio produceva un grande numero di lastre, poi magari passavano sei anni di abbandono della tecnica, per poi tornare a praticarla con veemenza…In una delle sue prime occasioni espositive importanti, la Biennale di Venezia del 1927, Morandi ritiene di partecipare soprattutto come incisore, presentando un numero di incisioni superiore a quello dei dipinti. Sintomo che in quell’anno, in quella fase della sua produzione, riteneva che il suo linguaggio fosse meglio rappresentato dalle incisioni. Peraltro in quell’epoca queste grafiche si potevano vedere soltanto in occasioni di grandi mostre, soprattutto biennali: egli infatti non provvedeva ancora a tirature delle lastre, che non erano sul mercato, ma avevano una diffusione limitata alla manifestazione espositiva. Il fatto di alternare periodi di inattività ad altri di intensa pratica dell’incisione, è dovuto alla necessità di affrontare alcuni problemi formali, di valore formale e valore chiaroscurale. Gli anni ’27 e ’28 sono molto fervidi di prove incisorie: quei valori, sperimentati attraverso la trasfigurazione del bianco e nero, vengono poi trattati in pittura, perché aprono un campo sperimentale che a quel punto ha bisogno della sua indagine attraverso la materia del colore. In sostanza, quando lavora a qualche indagine nuova, in genere la affronta con l’incisione…
Lei continua a parlare di “lavoro”; Morandi era davvero un artista così serioso?Dico lavoro non a caso: è un termine che Morandi usava spesso per definire la sua arte, la chiamava lavoro, chiedeva di essere lasciato in pace per svolgere il suo lavoro, con una abnegazione operativa non dissimile da quella di professionalità tecniche…
È noto che Morandi, nel suo intransigente rigore espressivo, distruggeva molte lastre non ritenute adeguatamente rappresentative…Gli anni che a noi oggi paiono i più ricchi di prove incisorie, sono in realtà quelli di cui lo stesso Morandi ha voluto farci pervenire testimonianza. In realtà sappiamo che la sua attività sperimentale nell’incisione fu molto più intensa di quanto oggi non ci risulti. L’inizio è ad esempio segnato da tre fogli, uno del 1912, uno del ’13 e uno del ’15, due paesaggi e una natura morta: ma è noto tuttavia che in quegli anni avesse inciso moltissimo, uno dei primi artisti italiani moderni a incidere così tanto, ma poi distruggeva se prove ritenute non soddisfacenti. Quello che ci è pervenuto è il risultato di una selezione durissima…
Non ci restano dunque documenti del molto lavoro di quegli anni…Durante la citata mostra del 1990, avemmo la possibilità di esporre una notevole quantità di lastre allora sconosciute, in seguito donate dalla sorella Maria Teresa alla Calcografia. Lastre che Morandi aveva rifiutato, ma di cui aveva comunque conservato le matrici. Un grado di possibilismo ulteriore, rispetto alla distruzione assoluta, materiale della lastra…
Quindi il grado di distruzione diventava creativo…Assolutamente, corrispondeva precisamente a una volontà d’arte. Conservare la lastra diventava un segno di legittimazione, almeno come documento, se non come opera…
Perché un visitatore dovrebbe venire a Ferrara per questa mostra, professore? Qual è l’impronta che troverà?C’è tutto il corpus incisorio di un grande artista, e questa mi pare già una buona ragione. In genere le mostre si fanno per volontà di un curatore, un interprete, che attraverso la mostra vuole dimostrare qualcosa. Che in genere, o è un discorso storico, oppure critico, cioè prendere parte di giudizio nello sviluppo dell’arte contemporanea. Ma Morandi stesso era molto attento a selezionare le mostre cui partecipava, facendo attenzione che la tesi del critico non si sovrapponesse alla sua intenzione espressiva. Questa mostra vuole essere una lettura classica, contemplativa, dell’opera nella sua generalità, senza una volontà di lettura che esprima una particolare tendenza critica…
Dichiara la sua neutralità, insomma…Naturalmente, nessuna mostra può essere innocente, dal punto di vista linguistico: la mia curiosità di curatore è quella di vedere che effetto fa una mostra così “classica”, di contemplazione, sulla nostra sensibilità odierna, sui problemi estetici legati all’attuale approccio all’arte contemporanea…