Nel giardino incantato di Ai Weiwei |

di - 31 Marzo 2015
Il più famoso artista contemporaneo cinese in dialogo con il Rinascimento italiano. Succede a Mantova, nei magnificenti saloni di Palazzo Te che Giulio Romano, che il migliore tra gli allievi di Raffaello progettò tra il 1524 e il 1534.
Con la sua arte visionaria, da anni impegnata in ambito sociale, Ai Weiwei (Pechino, 1957) abita fino al prossimo 6 giugno le stanze della prestigiosa residenza dei Gonzaga nella mostra “Il Giardino Incantato”, curata da Sandro Orlandi Stagl, Mian Bu e Cui Cancan, con il supporto di Being 3 Gallery di Pechino. Un viaggio attraverso una quindicina di opere inedite, costituite in tutto da oltre 100 lavori, tra sculture e installazioni, appositamente realizzate per l’occasione da Ai Weiwei e da altri due artisti che da anni collaborano con lui, Meng Huang e Li Zhanyang.
Considerato tra i più importanti ed influenti artisti contemporanei, oltre che architetto, scultore, designer e fotografo Ai Weiwei è anche un blogger affermato e, soprattutto, un attivista per i diritti umani, estremamente critico con il governo cinese, di cui ha indagato e denunciato la corruzione al punto da essere incarcerato per poi vedersi negato il diritto di lasciare il Paese. Un legame paradossale perché se da un lato non può allontanarsi dalla patria, dall’altro ne è fortemente legato, visto che a Mantova ha inviato tre installazioni in porcellana, simbolo della cultura e della tradizione artistica cinesi.
Un’esposizione in bilico tra tradizione e contemporaneità, tra artificio e natura, tra omologazione e unicità, tra libertà d’espressione ed eccesso.

Il confronto con il Rinascimento prende avvio con una tematica cara agli artisti del Quattro-Cinquecento che si misuravano con lo studio delle proporzioni anatomiche tanto del corpo umano quanto di quello animale. Il cavallo è sicuramente l’animale per antonomasia più ricorrente nella storia dell’arte: l’armonia delle sue forme e i suoi muscoli in movimento hanno rappresentato per gli artisti un tema di enorme fascino. A Palazzo Te, la stessa Sala dei Cavalli prende il nome dai protagonisti della decorazione pittorica alle pareti, a testimonianza dell’amore che i Gonzaga nutrivano per questi animali. Considerata la sala per eccellenza della villa, sia per le dimensioni che per la funzione di luogo di accoglienza e di celebrazioni, i cavalli vi sono raffigurati a grandezza naturale, su uno sfondo paesaggistico.
Ai Weiwei propone la sua mitologia del cavallo con una scenografica installazione di 91 piccoli cavalli in ceramica, rigorosamente ordinati nella gradazione cromatica e nella ripartizione delle file, all’interno di una vasca lignea quasi fosse un riferimento visivo all’esercito di terracotta di Xi’an. Le piccole statuette equestri colorate con vernice metallizzata sono repliche delle antiche ceramiche Saicai della dinastia Tang, usate come doni diplomatici negli anni Settanta. Per Ai Weiwei questa profanazione con la vernice industriale è un riferimento allo scempio culturale che in Cina avviene quotidianamente verso il paesaggio ed i reperti della storia e della tradizione cinese.

Nella Sala dei Giganti, che l’invenzione pittorica di Giulio Romano ha reso più stupefacente delle altre, giocando sulla presenza in primo piano delle grandi figure dei giganti, che insieme alle rocce e alle architetture, rovinano al suolo, l’installazione di Ai Weiwei, composta da tre antichi pilastri a terra, crea un corto circuito tra pittura e realtà, tra storia e presenza, tra realismo e simbologia. Se alle pareti, nel coacervo pittorico le colonne marmoree si spezzano lasciando crollare le trabeazioni, a terra giacciono tre pilastri con draghi a rilievo, dipinti con vernice automobilistica metallizzata e provenienti da un antico edificio cinese abbattuto, mettendo in discussione il rapporto tra finzione e realtà, tra storia occidentale e storia orientale, tra sacralità e trasformazione.
E sono sempre tre le barre in porcellana colorata sistemate dentro una teca nell’Ala Napoleonica, una riproduzione di alcuni frammenti che l’artista raccolse tra le macerie del terremoto del Sichuan nel 2008, dove morirono oltre 5mila bambini a causa dell’inadeguatezza degli edifici scolastici al rischio sismico. Un’altra denuncia al governo che, in quell’occasione, cercò di minimizzare anche il numero di morti.

Ad arricchire le acute riflessioni di Ai Weiwei, ci sono i lavori visionari di Meng Huang e Li Zhanyang. Quest’ultimo con l’installazione Flash (2014) voluta dallo stesso Ai Weiwei, riproduce fedelmente il suo maestro-mentore all’interno della sua casa-studio di Caochangdi seduto davanti al suo computer. Di fronte a lui una vetrata che dà su una terrazza con un giardino con piante vere e sullo sfondo un paesaggio cinese notturno. Il tutto immerso nel buio; alcuni lampi ogni tanto, illuminano la scena. Il significato è quello di un Paese (in questo caso la Cina, ma spesso il mondo intero) ancora immerso nelle tenebre dell’inciviltà e della prevaricazione, dove lo stesso futuro sembra cupo e spaventoso, ma dove ogni tanto appare una luce. Ai Weiwei è una di queste, capace di rischiarare le tenebre.
E se “Monster” (2007) sembra alludere alle antiche figure leggendarie e immaginarie che popolavano le pagine dei bestiari medioevali o rinascimentali, monito allo stimolo della conoscenza per cancellare la paura, l’opera Millions of snakes coming out of their pit (2010) sembra richiamarsi all’iconografia del Laocoonte e a suggerire di nuovo dualismi tra potere e libertà, oriente e occidente, tra rappresentazione e simbologia. Una riflessione sulla morale e sulla ricerca del benessere si trova in Night scene of Chongqing (2001) dove lo sfrenato soddisfacimento di ogni vizio stridono con la ricerca della spiritualità orientale della tradizione zen. La bassezza dell’istinto umano emerge anche in Wuson’s killing his elder brother’s wife (2004) dove sotto il colore e l’ironia si celano messaggi di drammatica attualità.
“Il Giardino Incantato”, ideato da Origini (di EBLand Srl, Presidente Paolo Mozzo), organizzata in collaborazione con il Comune di Mantova, diventa quindi la vera provocazione della mostra perché è il luogo dove l’incanto alla fine sparirà: gli artisti, dopo averci esposto alla grande illusione, alla fine ci conducono al disincanto e a distinguere meglio etica ed estetica nella nostra società contemporanea.
Federica Facchini

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