NEL LABIRINTO DI MIROSLAW BALKA

di - 21 Marzo 2017
Si procede a tentoni come animali che a poco a poco comincino ad allertare i propri sensi entrando in un vasto spazio semibuio: il tatto, l’udito, l’olfatto poi, a mano a mano, la vista è richiamata da fiochi bagliori di luce dove si cominciano a distinguere le prime presenze: un abitacolo semipraticabile
in legno la cui lampadina si spegne appena entrati per riaccendersi solo quando siamo usciti, un grande riquadro coperto da tanti zerbini (Common ground, 2013/2016) che dopo aver spostato una tenda dai lembi inequivocabilmente caldi (Unnamed, 2017) ci accoglie con un cenno di saluto, fatto di welcome distribuiti sui quattro lati del perimetro che funge da annuncio, invece che da soglia in attesa di un transito.
Siamo piovuti in un immenso spazio che ci avvolge con la sua oscurità, senza alcuna indicazione di come fruirne se non lasciandoci trasportare, ora qui ora là, da suoni, bagliori, odori che ci sollecitano in diverse direzioni, fuori da un percorso riconoscibile e prestabilito e quindi siamo anche leggermente impauriti. Siamo qui per accorgerci di qualcosa, forse che siamo vivi, fuorusciti dalla grande, calda, coltre materna che abbiamo appena superato e che, anche se non capiamo dove mettere i piedi dobbiamo cavarcela da soli, facendo attenzione ai nostri passi per non rischiare di inciampare in qualche confine invisibile o troppo tardi di trovarci davanti a un ostacolo invalicabile.
Miroslaw Balka ci sta raccontando come si fa esperienza di qualcosa attraverso un inaspettato che ci coglie di sorpresa e che spiazzandoci ci costringe a interrogarci su ciò che sta succedendo alle nostre emozioni, oltreché a ciò che ci pareva già noto. Non è forse questo il thaumazein che Aristotele pone all’origine della filosofia e che Heidegger fa proprio? Uno sgomento, un sorprendersi da cui ogni domanda è generata?
Avanziamo: c’è una mappa luminosa (mapL 2009/2010), proiettata a terra dove si spostano rettangoli rossi e neri attraversati da una sinusoide mobile come quella che divide la carreggiata di una strada. Sembra una citazione di Kandinsky – o del Costruttivismo russo – ma è chiaramente una mappa stradale ripresa dall’alto, che scopriremo si riferisce alla città di Lublin, dove i luoghi destinati alle esecuzioni di massa sono proprio quei rettangoli rossi e neri che evocano movimenti dell’avanguardia storica.                      
Il parallelepipedo rosso ruggine (The right path, 2008/2015) dove si può penetrare, ma che ci costringe a tornare indietro, perché senza uscita, dialoga al polo opposto, con la molla d’acciaio filiforme (To be, 2014) sospesa dentro un fascio di luce, mossa in cerchio a sobbalzi da un piccolo motore che scarica rumorosamente a terra la sua tensione. Queste forme, anche nel loro colore, sembrano alludere, in alzato, a quelle mobili, schiacciate a terra, della mappa luminosa in movimento.
Ogni zona è specifica e determinata, ma in un aperto senza confini essa è in dialogo con le altre a seconda dei punti di vista che assumiamo camminando o, a volte, tornando sui nostri passi, per verificare se abbiamo tralasciato qualcosa: un segmento giallo, ad esempio (Holding the Horizon, 2016), d’impercettibile mobilità, perché ripreso con la telecamera, collocato molto sopra l’orizzonte abituale, proprio sulla parete d’ingresso e una gigantesca piramide tronca (Wege zur Behandlung von Schmerzen, 2011) in cui si rovescia l’acqua dall’alto, che prima sentivamo soltanto scrosciare senza sosta. Percorsi per il trattamento del dolore’ – questa la traduzione – ci sovrasta. Situato alla sua base l’uomo può solo prender atto della propria ineluttabile impotenza dinanzi a eventi che incombono sul suo destino. Procedendo si staglia chiaro al centro un corridoio a forma di croce latina (Cruzamento, 2007), formato da una griglia di recinzione, dove al nostro passaggio siamo investiti da cinque tempestosi getti d’aria. Pur allusiva, tuttavia questa croce ci consente di guardare all’esterno e contemporaneamente di essere visti lungo il filtro mobile della grata.
Usciti di nuovo, incontriamo a destra una colonna terra-cielo di saponette usate (7x7x1010, 2000) i cui diversi colori brillano nella luce dei fari che ne proiettano l’ombra come una grande X sul pavimento, a sinistra ci appare un rettangolo di metallo e legno, basculante, (400x250x30, 2005) su cui possiamo salire per sperimentare la sua reazione che lo riporta a terra con frastuono. Poco oltre, dinanzi a noi c’è un corridoio a elle, a misura d’uomo, percorribile nei due sensi, al cui interno risalta una grande fascia gialla tracciata con il sapone (Soap corridor, 1995, in home page) che all’effetto di raggio luminoso unisce quello di un intenso profumo di pulito. All’uscita pieghiamo nuovamente a destra verso una costruzione minacciosa come una sorta di grande ragno (250x700x455 Ø 41×41, Zoo/T, 2007/2008) che disegna a terra l’ombra di geometrie misteriose e inestricabili come un enigma cabalistico. Scopriamo dopo che questa sagoma – nella scala rispondente al corpo dell’artista – rappresenta lo Zoo fatto costruire dal Capo Comandante delle SS a Treblinka per il diletto dei familiari e degli altri ufficiali. Intravvediamo su un monitor la faccia di una guardia del Campo che ripete incessantemente Primitive,Yes (2016), mentre sotto lo scheletro dell’architettura un flusso di vino rosso ribolle dentro un recipiente cilindrico.
Risalendo di poco, due fornelli da cucina (BlueGasEyes, 2004) simili a delle grandi margherite, spandono la loro luce blu sul pavimento, trasferendo l’idea dell’innocua quotidianità su di un piano sempre più inquietante.
Ci attende alla fine del percorso un vano cubico completamente illuminato, dalle pareti nude, in cui a fatica distinguiamo come una bava di luce, un filo giallo di cotone che dal soffitto arriva sino a terra e vibra al minimo alito d’aria, ruotando lentamente.
Miroslaw Balka ha posto l’uomo al centro della storia quale soggetto senziente e percipiente. Ne ripercorre il cammino come un’iniziazione, così il filo che conduce la narrazione non può essere razionale, ma si spezza in momenti e luoghi che fanno spazio all’ascolto dei frammenti, dove si assiepano gli attimi di verità. Il percorso, però, si può rifare a livello formale e poi anche a livello simbolico – il ruolo giocato dal modo di usare i materiali è fondamentale – sono questi gli incroci di cui ci parla Miroslaw Balka, che di ogni cosa misura la stretta funzionalità al passaggio dell’uomo.
L’uso che la storia del Secolo Ventesimo ha fatto di forme e di simboli ha avuto carattere di assoluto e la critica di Balka al razionalismo in architettura e in arte – che non furono indenni da complicità con i regimi – è forte. L’essere e le ontologie hanno contato più degli aspetti esistenziali, ma in queste fedi, in queste ideologie e concetti, spesso riassunte in equivalenti puramente astratti, si è forse annidato il male. L’assolutezza dei simboli ha impedito all’uomo di declinarli secondo un proprio discernimento e inclinazione, per questo Balka può oggi proporci di scaricare la tensione del simbolo assoluto e di attraversarlo. Non esiste riferimento geometrico nella mostra che non possa essere varcato come soglia di un abitacolo, perché l’artista ha compreso quanto essi abbiano minacciato la condizione dell’uomo. Si tratta di trasformare l’orientamento del simbolo, come succede attraversando la croce a griglia, mantenendo lo sguardo sul mondo e il suo su di noi.
Per quanto sia evidente un’allusione alle trasmutazioni alchemiche – dall’acqua nera del dolore al giallo dell’oro purificatore della ‘luce di sapone’ – per quanto la molla To be evochi i sussulti della spina dorsale del nostro essere che, come l’energia di kundalini attraversa i chakra delle nostre vertebre e per quanto l’odore del vino rosso in ebollizione ci riconduca alla dimensione sacrificale, qui l’opera non cammina dentro la macchina dell’alchimia, ma dentro una coscienza umana, che si fa e si disfa, rabbrividisce e si placa, sa reggersi in equilibrio sulla tavola-mondo e cedere alla gravità o, infine, introdurre la svolta che sta dietro un angolo. L’opera si manifesta allora proprio nell’intrecciarsi mobile di confini tra mondo materiale e psichico, fisico e politico, onirico e spirituale.
Curare e alleviare le ferite della storia, si può solo dopo averle attraversate, non per dimenticarle, ma per conoscerle e per avere la forza di superarle.
Bisogna, oggi, saper “vedere le rughe distendersi sul volto di Dio”, come ha scritto Pietro Citati in L’Islam Le scintille di Dio.

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