Chissà se Roberto Cuoghi ha mai visto dal vivo l’altare di Isenheim al museo Unterlinden di Colmar, dipinto dal pittore tedesco Matthias Grunewald, (1512-16) dove il corpo crocefisso di Cristo è divorato dal fuoco di Sant’Antonio, il terribile male che veniva curato nell’ospedale di Isenheim. Con più probabilità avrà visitato la sala del Museo del Prado dove sono conservate le quattordici Pinturas negras (1819-23) che Goya dipinge sulle pareti della Quinta del Sordo, la sua casa sul fiume Manzanarre, dove trascorre gli ultimi giorni della sua vita circondato da incubi e stregonerie, provocate dalla delusione per l’esito della guerra di Spagna, già anticipate dalla celebre serie di incisioni I disastri della guerra.
È probabile che abbia una certa dimestichezza con i racconti di Edgar Allan Poe, Arthur Machen e Howard Phillip Lovecraft, e in particolare con il ciclo di Chtulhu, che racconta il ritorno sulla terra di antiche creature sottomarine dall’aspetto mostruoso e polipesco, che appartengono ad una razza pre-umana che frequenta antichissime rovine di templi e città nel profondo di inaccessibili fondali oceanici, evocati in antichi testi di stregoneria come il terribile Necronomicon, che Lovecraft immagina fosse stato scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred nel medioevo. Possibili e probabili fonti dell’originale e inquietante immaginario del più gotico e misterioso tra gli artisti italiani, figura umbratile ed enigmatica, protagonista di “Perla Pollina 1996-2016”, la mostra antologica aperta fino al 18 settembre al Madre di Napoli, curata da Andrea Bellini e Andrea Viliani, e co-protagonista, con l’installazione Imitatio Christi, della mostra “Il mondo magico”, curata da Cecilia Alemani per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, che riunisce le opere di Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey.
Se a Venezia l’opera di Cuoghi appare in tutta la sua oscura e inquietante complessità, toccando punti come la religione, la scienza, la sociologia, il concetto di reliquia con tutte le sue ramificazioni, al Madre quest’antologica è stata concepita come un viaggio nell’immaginario dell’artista. Una sorta di mise en abime di un lavoro che si è evoluto per fasi, ossessioni ed esperimenti, in parte determinati dalla decisione, presa nel 1997, di assumere l’aspetto fisico del proprio padre, che allora ne aveva 67. A cominciare dal Coccodeista (1997), una serie di autoritratti su carta dove l’artista indossa occhiali con lenti sostituite da prismi Schmidt-Pecan, che capovolgono la visione della realtà. Così, le sale di un intero piano del museo, con le pareti dipinte di un rassicurante e domestico color azzurro chiaro, accolgono i diversi cicli di lavori di Cuoghi, come The Goodgriefers (2000), le Mappe e i Quadri Neri (2002) presentati in maniera diacronica e pulita, senza guizzi o particolari originalità, quasi a voler sottolineare un desiderio di musealizzazione di un lavoro nato come risposta ad ossessioni esistenziali, come le parole scritte durante il periodo nel quale l’artista si era lasciato crescere le unghie in maniera abnorme. “L’opera di Cuoghi non può essere interpretata come un anacronismo” puntualizza Andrea Cortellessa nel monumentale ed esaustivo catalogo che accompagna la mostra , curato da Andrea Bellini per Hatje Cantz, “Ma piuttosto come un asincrono” : del resto, Asincroni è il titolo di una serie di inquietanti disegni in bianco e nero realizzati nel 2003.
“Come uno Zelig contemporaneo – aggiunge Charlotte Laubard – l’identità di Cuoghi muta ad ogni nuovo progetto”. Una delle opere più complesse è il ritratto del collezionista greco Dakis Joannou, lavorato come un bassorilievo rinascimentale, con un realismo ambiguo, che ne esalta la misteriosa matericità, in dialogo con le sculture che raffigurano idoli di civiltà scomparse, della serie Pazuzu (2008). La mostra prosegue nel mezzanino, dove alcune sale dalle pareti nere permettono un’ulteriore approfondimento del mondo di Cuoghi, e in particolare da Putiferio, l’intervento realizzato nel 2016 sull’isola greca di Idra, quando l’artista ha presentato un’invasione di granchi di ceramica, realizzati con stampanti in 3D e cotti in forni costruiti appositamente, per far rivivere simbolicamente questa specie animale che, da Idra, era scomparsa molto tempo fa. Infine, al lato dell’ingresso del museo troviamo la Project Room, allestita come una delle sale del Quai Branly a Parigi, che presenta una serie di sculture in materiali diversi, con un forte accento antropologico. Una mostra da vedere, propedeutica alla comprensione del lavoro di Venezia, che si conferma come l’opera più forte e complessa dell’artista, capace di unire insieme una molteplicità di istanze presenti in nuce nella sua ricerca, che necessitavano forse di un’occasione istituzionale prestigiosa come il Padiglione Italia.
Ludovico Pratesi