Non solo fotografia. Letizia che coglie l’attimo |

di - 17 Dicembre 2016
Oggi gli equilibri sono diversi, ma a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta mica era facile essere donna in un ambito professionale dove il testosterone comandava. Nel fotogiornalismo ad esempio, dove il “sesso debole” veniva scalzato dai colleghi, e per ottenere le pari opportunità doveva agire di suo; e gridare – ma non metaforicamente – per riuscire a confezionare il proprio reportage come ogni uomo. L’ugola era quella di Letizia Battaglia (Palermo, 1935), giovane fotoreporter presa poco in considerazione perché, dice lei, «non ero credibile, così biondina». Oggi è la passionale, smagliante, ottantenne cui il Maxxi rende onore con la mostra “Letizia Battaglia. Per pura passione” (fino al 17 aprile).
Una donna disinvolta tra le sue molteplici passioni, dalla fotografia all’editoria, dal teatro alla regia; non da ultimo l’impegno politico nel partito dei Verdi tra gli anni Ottanta e Novanta, prima come consigliere e poi come assessore all’ambiente della sua adorata Palermo. Città che nell’intervista di Franco Maresco – tra i supporti video presenti indubbiamente il più efficace – dice di aver «fotografato tutta», lei «con la macchina sempre al collo». Città che in tempi più recenti l’ha delusa, e dalla quale si è auto-esiliata nel 2003. Ma la lontananza non ha escluso due anni più tardi il ritorno, happy ending per ogni storia d’amore che si rispetti.

Inquadrare in un unicum tutta la complessità del personaggio e senza che la fotografia in sé diventi l’asso pigliatutto, è stata la “missione possibile” del trio curatoriale formato da Paolo Falcone, Margherita Guccione e Bartolomeo Pietromarchi. Così, dando un colpo al pragmatismo e l’altro all’impatto scenografico, dal loro cilindro è saltato fuori un progetto “due per uno”, che mette in campo all’interno di una mostra sola due macro sezioni totalmente indipendenti. Di cui la prima a sua volta è una matriosca, un grande contenitore tematico in cui vengono affrontati – con dovizia cronologica – dagli esordi ai giorni nostri, dagli anni Settanta vissuti tra Milano e Genova alla rentrée – sul finire di quel decennio – in Palermo. Anni che portano la Battaglia ad essere scomodamente dentro la realtà mafiosa, dai processi – come quello a carico dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino – alle lotte tra clan. Ad essere professionista malvista dagli stessi mafiosi, che tramite missiva le preannunciarono una poco invidiabile “fine”, consigliandole molto caldamente di abbandonare la città, poiché coi suoi scatti – si legge testualmente – «ha rotto troppo i coglioni, ci siamo capiti». Incorniciato, e con tutte le sue endemiche sgrammaticature, quel documento è il vessillo di una mostra ben lontana dal voler essere definita semplicemente “fotografica”. Da pignoli, e nemmeno poi tanto, apriamo e chiudiamo una parentesi: ma una didascalia utile per inquadrare meglio la genesi di quel “pezzo di carta”? Tra l’altro in un’esposizione per cui contestualizzare ad ampio raggio i fatti è un fondamento. Proprio no? Sì che il contenuto pare piuttosto chiaro, però….

L’estetica delle immagini in ogni caso è contingente alla validità sociale delle stesse. Che è chiara fin dall’entrata, con la gigantesca planimetria del capoluogo siculo, dove pedissequamente viene localizzata la geografia di quarantaquattro scatti fondamentali, tutti successivamente rintracciabili nel percorso. L’idea di dare un contesto storico-areale alle immagini è encomiabile, il farlo diventare una sorta di monumentale preview rende però l’operazione un po’ troppo fine a sé stessa, e più che altro quasi meramente d’effetto. Sicché anche in coda un sistema del genere avrebbe avuto il suo perché, aiutando a definire le immagini solo dopo averle assimilate con gli occhi e capite col cervello. Il ripassino finale è obbligatorio.
Sobria, in questa mostra non sono deprecabili incursioni nell’ornamentale vagamente nazionalpopolare; connotato preminente quando si passa ai temi dell’editoria e alla schiera di colorate copertine del mensile cultural-politico Grandevù (fondato a metà anni Ottanta), soluzione appena più scenografica delle grosse teche che contengono altre pubblicazioni fondamentali nell’enucleazione del Battaglia-vissuto. Più ornamentale ancora è l’installazione a parete – molto “effetto decoupage” – in cui s’è condensato l’impegno per la testata palermitana L’ora. Lì c’è tutto il lavoro di fotoreporter, è nelle immagini che incontrano i titoli sulle prime pagine sparate come dei flash, un mischione di vittime e carnefici in cui si riconoscono Piersanti Mattarella, il generale Dalla Chiesa assieme alla moglie nell’A112 e Leoluca Bagarella con sguardo psicotico, motivato dal sottotitolo che recita «Bagarella perde le staffe davanti ai fotografi».

Un obbiettivo “fluido”, che si è prodigato a fissare dai morti ammazzati ai riti festosi, dal lusso alla miseria più nera, forte di un plusvalore come la capacità – mista al sangue freddo – di entrare nello scatto senza inquinarlo, senza condizionarlo. Con lei, Letizia, sempre in prima persona nello studio di soluzioni prospettiche mai troppo casuali, cercando di buttare gli altri in scene di vita che mai hanno vissuto. E che dal suono del “clic” in poi diventano di tutti.
Sintomatologia che il serpentone fotografico denominato Anthologia – parte 2 di 2 della mostra – rende alla perfezione; un progetto di 126 immagini fluttuanti distribuite senza nessun tipo d’ordinamento logico e cronologico, tutte in quel rigoroso bianco e nero capace di livellare ogni distonia cronologica. Infilata di istanti non legati, in cui l’allegria balneare di un’affollata Mondello si trova assurdamente stretta tra l’omicidio del giudice Cesare Terranova e lo scatto intitolato Disperazione di un figlio. La “regola dell’antipodo” ricorre spesso in Anthologia, ed è il sale del suo essere rappresentazione di un “percorso di vita”. Nel mentre spiccano random la sgranata immagine di Giulio Andreotti con Nino Salvo, una sposa che si morde la lingua mentre corrucciata inciampa nel proprio velo e Giovanni Falcone, acchiappato di sfuggita mentre si reca ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Letizia che coglie l’attimo, con lo spirito del fotoreporter sempre pronto all’azione. Connotato spalmato nel suo lavoro in ogni dove, persino sui ritratti mai immobilizzati (indipendentemente si sia interessata a volti noti – ad esempio Pasolini, Cicciolina e Gae Aulenti – o illustri ignoti); e ancor più in mezzo alla natura morta de Nella spiaggia dell’Arenella la festa è finita, in cui tra la gallina, i pizzi e le bottiglie ormai vuote è facile percepire quel vento che ancora muove i tovaglioli sulla tavola in riva al mare. Adorabile poi il finale scelto, per Anthologia e quindi tutta la mostra, con Patrizia partorisce Marta, odore di resurrezione dopo tanta morte, con la fotografa che sa sempre dove inserirsi per narrare senza strafare. Un filino lezioso, ma perfetto.
Andrea Rossetti

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